Pieces of a Woman
Canada/Ungheria/USA 2020 dramma 2h6’
Regia: Kornél Mundruczó
Sceneggiatura: Kata Wéber
Fotografia: Benjamin Loeb
Montaggio: Dávid Jancsó
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Sylvain Lemaître
Costumi: Rachel Dainer-Best
Vanessa Kirby: Martha Weiss
Shia LaBeouf: Sean Carson
Molly Parker: Eva Woodward
Sarah Snook: Suzanne
Iliza Shlesinger: Anita Weiss
Benny Safdie: Chris
Jimmie Fails: Max
Ellen Burstyn: Elizabeth Weiss
TRAMA: Durante un parto in casa, Martha Weiss e il compagno Sean Carson perdono la propria bambina a causa di un presunto errore da parte dell'ostetrica corsa in soccorso. La coppia si scopre, in modi diversi, più impreparata di quanto non credesse ad affrontare un lutto del genere.
Voto 8
Il racconto di una maternità mancata che conduce ad una solitudine devastante, una donna che si rivela fragile ma anche forte per resistere e cercare in sé la capacità di rinascere. Film che però a me ha suscitato una domanda e una serie di riflessioni.
Il lutto per una perdita, dunque. Una reazione vecchia come l’uomo, dato che tutti noi, prima o poi, dobbiamo affrontare la difficoltà di sopravvivere a chi ci circonda: un familiare o un amico che muore. Più ci era vicino, più lo amavamo, più è il dolore. Il lutto per una perdita, dunque. Ma vediamola così: il lutto e la perdita. Il film mi ha diviso il concetto in due. Il lutto da una parte e la perdita dall’altra. Sembrerà un illogico e inutile gioco mentale, eppure è ciò che ho provato durante la visione di questo film drammatico ed emozionante. Sembrerà anche stupido ma mi son chiesto se è più sopportabile il lutto o la perdita perché osservando Martha nella sua sofferenza, ciò che era portata a pensare e a dire, quello che (non) mostrava dal volto divenuto terreo e immobile, come se non provasse più alcun sentimento, ho avuto l’impressione che lei soffrisse più per la perdita. Devastata dalla mancanza di quel meraviglioso esserino che si era trovata per le mani solo per qualche secondo, per poi perderlo per sempre, come un estremo e feroce esperimento della natura.
Martha e Sean sembrano una coppia affiatata, felicissimi di attendere una figlia, come suggello del loro amore. La prima mezz’ora del film ce li mostra armoniosamente in sintonia, innamorati, nonostante lei provenga da una famiglia benestante e senza problemi finanziari e lui sia solo un capo operaio esperto nella costruzione di ponti di cui va fiero vedendoli una volta realizzati, che guarda con invidia le foto di quelli già esistenti al mondo, opere d’arte ingegneristica tra una terra e l’altra. La piccola Yvette (nome contestato dalla famiglia ebrea da cui arriva Martha) è attesa con ansia, come capita a tutti, ma l’idea fissa (diciamo pure banalmente ma più realisticamente fissazione!) di partorire in casa diventa con ogni probabilità la causa principale del parto complicato e della conseguente morte della neonata dopo solo qualche minuto. Da quel momento in poi inizia tutto un altro film, o meglio il vero film, il vero racconto che il regista ungherese Kornél Mundruczó – per la prima volta in un’opera in lingua inglese - ha voluto realizzare, essendo questa vicenda realmente accaduta a lui e alla sceneggiatrice Kata Wéber, sua ex moglie: “È un'aria profondamente personale e dolorosamente familiare, tratteggiata in ricercati toni di grigio, la storia trascendente di una donna che impara a convivere con la sua perdita. È possibile sopravvivere dopo che si è persa la persona che più si amava? A cosa ci si aggrappa quando sembra che non ci siano più appigli? Mia moglie ed io volevamo condividere con il pubblico una delle nostre esperienze più personali attraverso la storia di un figlio non nato, nella convinzione che l'arte possa essere la miglior cura per il dolore. Saremo gli stessi di prima dopo una tragedia? Riusciremo a trovare qualcuno che ci accompagni nella caduta libera del dolore? Il mondo appare capovolto, un luogo in cui non riusciamo più a orientarci. Con il film volevamo realizzare una storia autentica su una tragedia e su come imparare a convivere con quel dolore. Una perdita sfugge alla nostra comprensione o al nostro controllo, ma porta con sé la capacità di rinascere.”
Detto così, senza aver visto il film, sembra la solita e ripetitiva rappresentazione della morte di un figlio, sicuramente il peggior evento che una persona può sopportare, ma per la modalità con cui regista ha fotografato il viso e le movenze della protagonista si va ampiamente oltre. Dalla gioia iniziale, Martha piomba nel buio che non conosceva, nella totale apatia verso il resto dell’umanità. Il rapporto con il compagno (non marito, come tiene a precisare in tribunale) si spezza come il filo di cotone che non regge più il bottone, la famiglia cerca di recuperarla almeno adesso che si è sganciata da Sean, dimostrando vecchie ruggini che si trascinano da tempo, specialmente con la mamma sopravvissuta alla Shoah. Questi cerca di trasmetterle la forza di sopportazione che la vita le ha insegnato, la determinatezza per superare le difficoltà che si incontrano, la voglia di tornare alla vita viva anche dopo una perdita come una figlia. Ma Martha è scostante più del solito con la madre e respinge ogni riavvicinamento. Nel frattempo, Sean, pur tradendola occasionalmente, cerca di recuperare il rapporto più che deteriorato, ormai totalmente perso, ma ogni sforzo sarà vano e non resterà che partire per il luogo che sogna da tempo, Seattle, sulla sponda opposta dell’America. In fondo, è come costruire uno dei suoi amati ponti, ma lunghissimo per un’altra vita. Partirà piangendo, conscio di aver perso la migliore occasione per una bella famiglia. Ponti che invece la donna ha tagliato con tutti, come per poter restare ancorata solo al ricordo di quel corpicino che non è riuscita a godere, a baciare, a cullare. Lei ha distrutto i rapporti con gli altri alla pari di un esercito che mina ogni ponte che lascia alle spalle. Kornél Mundruczó è di Budapest, quindi abituato a vedere ponti, come dice lui stesso. “I ponti connettono qualsiasi cosa, sono simbolici in una maniera diretta.” La cornice temporale scandita di mese in mese – che separa in capitoli il film - con l’immagine di un ponte invece è servita a rendere autentico lo sviluppo psicologico di Martha e per agganciarsi alla tradizione ebraica - alla quale lei appartiene – che come è noto considera di 11 mesi la durata del lutto.
Se Sean prova dolore come un qualsiasi padre e piange la bimba che gli manca tantissimo e soffre sia per quella assenza buttando tutti gli oggetti della cameretta già approntata sia per Martha che vede sempre più isolata in se stessa e lontana da lui, quest’ultima non elabora la perdita, non accetta di rimettere in sesto la distruzione intima. Il terremoto psicologico subito lo sente più di un trauma, è un’apocalisse personale. Un vuoto chiamato perdita, più che un lutto. Irreparabile. Come il rapporto con Sean.
Nell’ambito di un film che richiede parecchio agli attori per una performance continuamente impegnativa, tre sono le scene che rimangono nella mente.
La prima mezz’ora è da antologia. Si assiste ad un lunghissimo e virtuoso pianosequenza di 23 minuti senza tagli, in un movimento unico che ha richiesto due giorni di lavorazione e alla fine il regista ha scelto quello ritenuto il più riuscito. Minuti che paiono eterni, con le prime doglie, la rottura delle acque, i dolori, l’ostetrica Eva – che diventerà il personaggio contro cui si scaglierà tutto l’ambiente, soprattutto nel processo a suo carico – e l’uomo che cerca di rendersi utile, per quello che può in questi casi. Urla, paure, ritardi, acqua calda nella vasca, la bimba che fa fatica ad uscire, ritardo nel chiamare i soccorsi, la neonata che muore tra le braccia dei genitori muti di dolore. Al cambio scena sono stanchi anche gli spettatori partecipi, perché la sequenza è fatta talmente ben che non si può fare a meno di condividere la sofferenza prima fisica e poi mentale. Memorabile! E che idea, quella di Mundruczó!
Il discorso morale della mamma Elizabeth alla figlia Martha, che la esorta a reagire e a non dimenticare come tante altre persone soffrono ma lottano ugualmente. Un monologo che lascia sbalorditi perché è anche una lezione di vita da parte di una persona che ha molto sofferto e si duole oggi per come viene trattata dalla figlia. Occhi lucidi, rughe ancora più evidenti di quello che il viso vecchio e stanco offre. Il loro continuo conflitto non le impedisce di ribadirle che la rabbia e la disperazione non diventino un pretesto per non vivere più, che non restino come eterne macerie sulla strada della vita. Ed infine la incalza affinché in tribunale testimoni contro l’ostetrica che ormai viene considerata, a causa dei suoi errori professionali, la ragione principale del disfacimento della sua esistenza.
Lo sfogo terminale di Martha, che però non diventa mai liberatorio, nell’aula di tribunale. Stanca e mai intimamente d’accordo sulle molteplici accuse di tutto l’ambiente (i familiari, la stampa) verso Eva Woodward, la donna dolorosa tira fuori il meglio di sé, parla come mai aveva fatto in tutti quei mesi, libera l’altra donna dalle colpe, ritratta le prime dichiarazioni e ammette persino le proprie colpe, essendo stata contraria, sin dai primi momenti di difficoltà del parto, a farsi portare in ospedale. La situazione così si capovolge e Martha ha sentito in dovere di rendere pubblico il suo pensiero e far assolvere l’ostetrica. La bimba non c’è più, semmai ci sia mai stata, la verità viene a galla, ognuno si prende le sue responsabilità, a cominciare da se stessa. Un monologo che si ascolta senza respirare. Capolavoro attoriale.
Tre scene, tre pezzi di vita di una donna fatta a pezzi.
Senza una grande regia, una straordinaria sceneggiatura (tralasciando il finale pietoso e conciliante) e gli attori eccellenti questo miracolo non sarebbe avvenuto. A questo va aggiunta un’annotazione di merito per la fotografia che ingrigisce, opacizza volutamente buona parte della visione, rendendo l’idea di un’atmosfera conflittuale. Notevoli le musiche di Howard Shore. Ellen Burstyn (quando scrivo, 88 anni!) è capace di interpretare un ruolo non immediatamente simpatico che sa rivelare le personali sofferenze e quanto di buono ci sia in lei. Il suo discorso, con gli occhi velati dall’emozione, oltre che essere una vera lezione di vita verso la figlia, è una lezione di recitazione per le giovani leve e se per lei arriverà la chiamata per le candidature importanti non ci sarà da meravigliarsi.
Shia LaBeouf merita solo elogi. Le sue ultime interpretazioni, come al solito improntate su diversi registri, in film variegati, segnano la chiara maturazione dell’attore, ultimamente sempre nascosto dietro un barbone che non ne limita l’espressività perché è dotato di un’impostazione vocale e una duttilità recitativa che lo premiano sempre. Il suo Sean è accorato, quel tanto di sbandato che gli si addice ma vibrante nelle scene più impegnative. Non lo avevo mai apprezzato a sufficienza, appartenente a quella schiera di dannati che caratterizza da sempre Hollywood, ma ho scoperto – nelle versioni originali – tutta la sua bravura, il suo puro talento, che necessita a mio modesto parere di una costante guida da parte del regista di turno, ma nello stesso tempo andrebbe lasciato al suo estro, che è molto intuitivo.
Un discorso a parte merita la superlativa Vanessa Kirby. Mi sono domandato dove fosse stata fino adesso, perché mi fosse sfuggita questa campionessa. Sicuramente sarà sempre stata brava (confesso che non la conoscevo se non per sentito dire) ma in questo film ha trovato la sua dimensione. È semplicemente un incanto, un lampo di genio, un fulmine nel cielo del cinema: purissima e fulgente interprete che sa trattenere o scatenare l’impeto recitativo. Durante i famosi 23 minuti del parto lei non pare reciti: lei STA partorendo. In tutta la durata del film è ammirevole fino alla lode, ma il pezzo finale – ennesimo pezzo di questo insieme – nel tribunale è capace di immobilizzare lo spettatore, di ipnotizzarlo, di renderlo partecipe. Con quella sua voce robusta, il naso importante che indirizza come uno sguardo, gli occhi che parlano come labbra, ha un corpo che diventa strumento del suo impegno. Un’attrice che supera in questa prova ogni aspettativa. A fine esibizione (perché tale è) vien voglia di applaudirla. D’ora in poi cercherò di non perdere più nulla di lei, con la speranza che dopo questa clamorosa affermazione potrà ricevere solo proposte importanti. E non so chi mai potrà toglierle la statuetta dorata nella notte degli Oscar, dopo aver vinto e convinto tutti con la pregiata Coppa Volpi a Venezia 2020.
Soprassedendo come detto ad un finale troppo accomodante, il film è eccellente e ci fornisce su un piatto dorato un amaro viaggio nel dolore di una mamma che non si rassegna alla perdita. Più che al lutto conseguente. Prima di tutto, ci dice Martha, viene la perdita, che riduce a pezzi una donna come lei. Forse, solo il profumo di una mela e il primo morso voluttuoso possono confortare lo spirito affranto. Dai semi di una mela nascono sempre altri frutti.
Riconoscimenti
2021 - Premi Oscar
Candidatura per la migliore attrice protagonista a Vanessa Kirby
2021 - Golden Globe
Candidatura per la migliore attrice in un film drammatico a Vanessa Kirby
2020 – Festival di Venezia
Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Vanessa Kirby
Premio ArcaCinema Giovani al miglior film
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