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Play (2011)

Play

Svezia/Francia 2011 dramma 1h58’

 

Regia: Ruben Östlund

Sceneggiatura: Ruben Östlund, Erik Hemmendorff

Fotografia: Marius Dybwad Brandrud

Montaggio: Jacob Secher Schulsinger, Ruben Östlund

Musiche: Jurriaans Saunder, Daniel Bensi

Scenografia: Pia Aleborg

Costumi: Pia Aleborg

 

Sebastian Hegmar: Alex

Sebastian Blyckert: Sebastian

John Ortiz: John

Kevin Vaz: Kevin

Yannick Diakité: Yannick

Abdiaziz Hilowle: Abdi

Nana Manu: Nana

Anas Abdirahman: Anas

 

TRAMA: Nel centro di Göteborg, un gruppo di bulli di colore, di età compresa tra i dodici e i quattordici anni, nel giro di poco tempo ha messo a segno decine e decine di rapine ai danni di bambini e ragazzi, ricorrendo a un’astuta tecnica che chiamano l’arte del fratellino. Non usano mai la violenza fisica né tantomeno le minacce. Ma non è detto che la fortuna li assista sempre. 

 

Voto 7

 



Facile, scontato e fuorviante dire che il cinema di Ruben Östlund sia provocatorio. Tutt’altro. Il regista svedese non fa altro che scoprire cerotti su ferite sociali e mostrare la piaga, crudamente, e poi indurci a chiederci: perché? quali sono le cause di certi comportamenti? Con il sadismo, però, di non offrire né risposte né rimedi, solo esponendo il problema. Che, come accade in tutti i suoi film, è di natura sociale o interpersonale.



Nel caso specifico, stavolta siamo a Göteborg, dove cinque ragazzi dai 12 ai 14 anni di origine magrebina, quindi sicuramente figli di immigrati (primo elemento che Östlund mette sulla graticola degli argomenti), attuano un ingegnoso piano – come fanno abitualmente - per derubare un gruppo di tre coetanei bianchi recatisi in un centro commerciale con il permesso dei genitori e dopo varie vicissitudini riescono a finalizzarlo: un po’ approfittando dell’ingenuità e un po’ per il timore che provano le loro vittime, i membri della baby gang inizialmente inscenano il trucco che tante volte abbiamo visto in atto negli interrogatori degli agenti della polizia, cioè il gioco tra il ruolo del poliziotto buono e di quello cattivo,  uno che minaccia e intimorisce, l’altro che fa da paciere. Tattica che con calma produce l’effetto desiderato ed induce i malcapitati alla resa. Infatti, gli aggressori riescono a condurli lontano dal punto di partenza e quindi dal centro urbano, dove, raggirati da altri trucchi e inviti al gioco, possono facilmente derubarli di tutto, costringendoli a tornare a casa privi di cellulare, soldi e buona parte degli indumenti.



Quando sei mesi dopo uno dei ragazzini truffatori viene riconosciuto da uno dei bambini rapinati che è in giro in compagnia del genitore, la situazione si capovolge drammaticamente perché il papà lo aggredisce e lo malmena per requisirgli lo smartphone e redarguirlo aspramente per il comportamento illegale con cui si procura soldi e oggetti di valore con le minacce in compagnia dei suoi sodali. La scena, che indubbiamente attira il consenso dello spettatore, viene notata da un paio di signore in transito, le quali non esitano ad intervenire rimproverando il genitore, facendo presente che, se non è un poliziotto, non può permettersi una tale condotta, approfittando di una doppia inferiorità del giovanissimo ladruncolo: primo perché è un minorenne e poi perché è un figlio di immigrati. La situazione, insomma, si è capovolta, almeno in nome della giustizia che non deve avvenire con il fai-da-te, né tantomeno abusando della evidente superiorità fisica.



Se il tema trattato è ampiamente discutibile e apre a considerazioni di vario tipo, percorso dialettico che il regista non si sogna di affrontare, l’aspetto artistico è tremendamente interessante. Ruben Östlund usa la sua personale maniera per filmare gli accadimenti che lo caratterizzano sin da quei tempi e che in seguito ha applicato con grande efficacia nei film che sono seguiti: Forza maggiore (2014), The Square (2017), Triangle of Sadness (2022). Lo si nota immediatamente sin dalla prima inquadratura: la macchina da presa è in campo lungo ed immobile, assolutamente immobile, per cui tutto quello che succede può succedere sia nel campo visivo oppure fuori quadro. Sentiamo tutto, dai rumori del centro commerciale, al brusio della gente che vagabonda o fa shopping, come anche le chiacchiere dei tre giovanissimi svedesi Sebastian, Alex e John. Udiamo le frasi anche se non sono inquadrati, alcuni entrano nello schermo, altri escono, altri stazionano, ma l’obiettivo non segue nessuno. È immobile. Particolare che continuerà per quasi l’intero film, con rari primi piani e con un’altra costante: l’assenza del commento musicale, il che non può non condurci a tornare con la mente allo spietato silenzio di musica usato costantemente dal maestro Haneke. Mediante questa tecnica, il regista segue i movimenti e le frasi furbastre dei cinque monellacci e le titubanze e i timori dei frastornati bianchi (eh, sì, purtroppo, si viene indotti a parlare di colore della pelle, tanta è la separazione tra i ragazzi e la loro provenienza) che non riescono ad evitare di seguirli nei sobborghi e nella periferia della città. Messi costantemente alla berlina e a dura prova.



Si prova un enorme fastidio assistendo alle piccole malefatte dei cinque colored, vieppiù perché lo spettatore non può intervenire e né testimoniare e fa tanta tenerezza osservare la paura e la sottomissione dei tre locali (va tenuto presente che anche i furbi aggressori sono totalmente integrati e parlano correttamente lo svedese) e si avverte una scomodità fisico-mentale che innervosisce per l’intera durata del film, anche per le scene che avvengono sui tram e sui bus che gli otto devono prendere per andare a cercare il fantomatico “fratellino” a cui, dicono, è stato rubato il cellulare, proprio identico a quello di Sebastian. A bordo attuano molestie ai passeggeri, prepotenze, tentativi di appropriarsi della roba altrui, fin quando non salgono alcuni adulti che li stanno cercando per punirli. Fastidio che diventa malessere, nella speranza che gli oppressi sappiano reagire e difendersi. Ruben Östlund raggiunge in tal modo lo scopo. E così la lunghezza di questa parte del film sembra insopportabile, anche per la lentezza e l’assenza di musica già accennata, che pare allungare di più le sequenze. Fino a quella finale su descritta, anch’essa filmata con una camera da presa fissa (in realtà si muove solo di qualche centimetro) in campo medio e in cui il papà di Sebastian pensa si porre rimedio al furto.



Play. Un gioco? Ma al massacro, di una società di cui al regista interessano i paradossi sociali violenti, gli stereotipi culturali, il gioco sociale per cui l’immigrato è un pericolo e l’indigeno una vittima. Un giogo più che un gioco, umiliante e insensibile. Un horror che avviene tutti i giorni in ogni angolo del mondo. Ma anche un horror inframmezzato da disturbi svianti, tipo una culla dimenticata a bordo di un treno, fatto intollerabile per la mentalità svedese. Questo è, prendere o lasciare, Ruben Östlund.



Bravi i ragazzi, come sempre sembrano spontanei e realistici, credibili e la discussione finale tra i cittadini adulti è imbarazzante e mostra, come succede nella realtà, quelli che vogliono reagire, almeno per il senso della giustizia, e quelli che si ergono a paladini delle persone in difficoltà almeno nelle apparenze, perché il comportamento dei cinque è davvero insopportabile e prepotente.

In tutto, 9 vittorie e 13 candidature in tutto il mondo, tra cui un premio secondario a Cannes 2011.



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