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Private Life (2018)

Private Life

USA 2018 commedia drammatica 2h3’

 

Regia: Tamara Jenkins

Sceneggiatura: Tamara Jenkins

Fotografia: Christos Voudouris

Montaggio: Brian A. Kates

Scenografia: Ford Wheeler

Costumi: Leah Katznelson

 

Paul Giamatti: Richard Grimes

Kathryn Hahn: Rachel Biegler

Kayli Carter: Sadie

John Carroll Lynch: Charlie Grimes

Molly Shannon: Cynthia Grimes

Emily Robinson: Charlotte Grimes

Denis O'Hare: dr. Dordick

Desmin Borges: Sam

Francesca Root-Dodson: Fiona

 

TRAMA: Una coppia alle prese con l’impossibilità di avere figli cerca di mantenere saldo il matrimonio. Tuttavia, barcamenarsi nello strano mondo della riproduzione assistita e dell’adozione non è semplice. Quando poi Sadie, una nipote acquisita che ha da poco abbandonato il college, entra nella loro vita, i due coniugi pensano di aver trovato la soluzione.

 

Voto 7,5

Di Tamara Jenkins, chi ha apprezzato il film precedente, La famiglia Savage - una tragicommedia come questa, che trattava di una famiglia disfunzionale che entra in crisi affrontando le scosse di assestamento della demenza dell’anziano patriarca - non può fare a meno di restare entusiasta anche di questa opera, ancor più bella e intelligente, magnificamente pure scritta da lei e recitata benissimo da un cast prezioso. Come si può notare, anche se a distanza di ben nove anni (parlando delle pause così lunghe che la caratterizzano, la Jenkins ha notato che le registe di successo spesso non producono film allo stesso ritmo delle loro controparti maschili, affermando “È sistemico. Deve essere sistemico. C’è qualcosa nell'acqua.”), la regista/sceneggiatrice ama i soggetti che mettono al centro dell’attenzione le problematiche familiari, in special modo quelle di coppia. E se la scrittura e lo stile di direzione sono quelle da commedia (eccellenti i dialoghi) i temi sono molto seri, a volte drammatici. Prendiamo questo caso: i problemi di fertilità di una coppia che entra in crisi allorquando tutti i tentativi di avere un figlio vanno a vuoto. Ce la mettono tutta, spendono tanti soldi in specialisti e medicine ma i risultati dicono zero assoluto. È certamente un tema spinoso da trattare e non è facile esprimersi nel merito sulle persone che seguono varie pratiche per poter realizzare il sogno di diventare genitori in qualsiasi maniera, anche con metodi poco ortodossi: le scelte sono soprattutto di carattere morale ed ognuno ha il suo metro etico per prendere decisioni tormentate e qualche volta ci si spinge fino ai limiti legali. Come si fa a condannare chi soffre molto a causa della mancanza di figli ed è disposto a tutto? Lasciamo da parte i giudizi morali e seguiamo le peripezie di queste due persone.

Richard e Rachel (Paul Giamatti e Kathryn Hahn) sono una coppia tra i quaranta e i cinquanta. Lei è scrittrice, lui si occupa di varie attività, tra cui anche di teatro. Vivono in un appartamento del quartiere residenziale di Greenwich Village a Manhattan con due cani di grossa taglia ma mansueti como loro, sono decisamente una coppia borghese in ottima sintonia e cercano disperatamente di avere un figlio. Dopo molteplici tentativi falliti di inseminazione artificiale, tentano la fecondazione in vitro. La coppia scopre che Richard ha un blocco che non gli consente di produrre sperma, costringendolo a sottoporsi a un intervento chirurgico che lo mette in debito di 10.000 dollari con suo fratello Charlie, sposato con Cynthia. Allo stesso tempo, provandole tutte, stanno tentando di adottare un bambino partecipando a un colloquio con un’assistente sociale. Qualche tempo prima essi erano anche entrati in contatto con un’adolescente presumibilmente incinta di Little Rock. Recatisi appunto in Arkansas, la ragazza manca l’appuntamento, portandoli a credere di essere stati vittime di una truffa.

Fallita la fecondazione in vitro, il medico propone l’idea di utilizzare l’ovulo di una donatrice per impiantarlo in Rachel, aumentando di molto le possibilità di successo. Nel frattempo, la loro nipote di 25 anni, Sadie, decide di lasciare il suo programma di scrittura al college che frequenta per finire in contumacia, come dice lei, e vivere a New York City con loro, ai quali è molto legata. Rachel, che fatica ad accettare l’idea di una donatrice sconosciuta, decide di chiedere a Sadie i suoi ovociti. Con loro sorpresa, la giovane accetta subito, sia perché li ama e li apprezza moltissimo, sia perché pensa che la donazione darà significato alla sua vita. “Vi donerò i miei ovuli”, esclama entusiasta anche perché, come dice, è sprecato perderli nel water durante le mestruazioni (!). Trovata finalmente la soluzione dopo tanti affanni e ricerche? Così parrebbe ma la situazione si complica nel giorno di festa a cui gli americani tengono tanto, il Thanksgiving Day che riunisce loro, la famiglia del fratello, di cui Sadie è figlia e altri familiari. Il pranzo andrà malissimo e la reazione non è quella sperata. Come andrà a finire?

Tamara Jenkins scrive e dirige con molta intelligenza e sensibilità il tema, ma gestendo soprattutto i patemi della coppia in cerca di felicità filiale, descrivendone le indecisioni, i ripensamenti, i dubbi, i timori. Richard e Rachel sono abbattuti e non riescono a rassegnarsi alle difficoltà e pur essendo affiatati e in armonia non riescono ad evitare qualche disaccordo: nascono discussioni e divergenze che per fortuna e per amore superano sempre. Specialmente con la pazienza dell’uomo, che vorrebbe vedere la moglie finalmente realizzata come madre. Per giunta, a furia di occuparsi di queste faccende, non fanno più sesso. Insomma, un percorso che all’inizio non sembrava tanto difficile: era partito dal tentativo di diventare genitori e ora sta precipitando in una ossessione che sfiora l’autodistruzione di coppia. Dottori, esami, prelievi, sale d’attesa (la regista replica più volte l’inquadratura delle sale d’attesa con coppie tristi e silenziose, sempre in attesa di buone novità, con silenzi che sanno di solidarietà ma anche di disinteresse dal momento che ognuno bada alle proprie speranze. Immagini che ricordano non poco quelle della sala d’attesa di quel film precedente, fratello e sorella seduti su un divano (Philip Seymour Hoffman e Laura Linney). Una situazione esasperante a cui non basta l’allegra esuberanza della simpatica Sadie, che sembra la figlia che non hanno potuto avere. In ballo, tra l’altro, c’è anche il futuro artistico della ragazza, che vuole seguire le orme della zia acquisita.

La regista affronta con coraggio un tema di enorme complessità ed è superlativa come mette al centro dello schermo i visi perplessi dei coniugi e fotografa con abilità le loro insicurezze ma anche la loro determinazione ogni volta che intraprendono una strada. Lo fa con un copione brillante e a volte malinconico, con dialoghi scritti con maestria, con una vena da commedia dai sentori alleniani, rimarcata dal quartiere dove abitano, dai bar che frequentano, che paiono i luoghi tanto amati da Woody. Le strade, i taxi, la gente: siamo lì. Ci sono momenti attraversati dai fallimenti e altri euforici dell’illusione, ma quelli da commedia sono davvero divertenti e arguti, con continue citazioni cinefile e letterarie perfettamente intonati alle varie situazioni.

Se la regia piace molto e si fa apprezzare come affronta con coraggio un tema di enorme complessità e con delicatezza, il cast è davvero lodevole. In primis Paul Giamatti, un attore mai sufficientemente lodato e premiato. È sempre misurato, preciso, efficace, che sa usare i tempi giusti sia nella recitazione che nella gestualità, negli ammiccamenti, sa catturare l’attenzione dello spettatore. Qui è fantastico. Gli fa ottima compagnia la simpatica Kathryn Hahn, più brava del solito e persino più attraente, che non si tira indietro neanche ad una scena di un nudo pressoché integrale. Starei per aggiungere che è il ruolo della sua carriera più importante. Un duo ottimamente in simbiosi e armonico. Decisamente positive anche le prove degli esperti John Carroll Lynch, Molly Shannon, Denis O’Hare, ma chi sorprende è la semisconosciuta Kayli Carter: con la grinta che la contraddistingue è la vera scoperta del film. Entrata in punta di piedi nella storia, si afferma prepotentemente e a tratti, si può quasi dire, ruba la scena a tutti. Brava.

Un film che mi ha felicemente sorpreso e che trovo molto apprezzabile, confermando le attese che avevo inizialmente verso Tamara Jenkins, cineasta che merita considerazione e ulteriori possibilità, ma, dati i suoi ritmi produttivi (lavora a lungo, ma molto a lungo sui suoi lavori di sceneggiatura) ci sta di aspettare ancora un bel po’ per poter vedere qualcos’altro. Ma con la certezza che ne varrà la pena, perché conosce bene gli ambienti e la gente che descrive e ha evidentemente una solida preparazione culturale e una mentalità molto aperta, occupandosi non solo di cinema, ma anche di letteratura, di teatro, ha lavorato con adolescenti creando un film di educazione sessuale per l’organizzazione no-profit Scenarios e ha diretto una serie di annunci di pubblica utilità per Amnesty International.

Una donna in gamba che ha sempre raccolto premi nei concorsi di cinema indipendente. Perché lei è davvero indipendente!



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