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Rifkin's Festival (2020)


Rifkin's Festival

Spagna/USA/Italia 2020 commedia 1h28’


Regia: Woody Allen

Sceneggiatura: Woody Allen

Fotografia: Vittorio Storaro

Montaggio: Alisa Lepselter

Musiche: Stephane Wrembel

Scenografia: Alain Bainée

Costumi: Sonia Grande


Wallace Shawn: Mort Rifkin

Gina Gershon: Sue

Elena Anaya: Jo Rojas

Louis Garrel: Philippe

Sergi López: Paco

Christoph Waltz: la Morte

Steve Guttenberg: Jake

Richard Kind: padre di Mort

Nathalie Poza: madre di Mort

Enrique Arce: Tomas Lopez

Tammy Blanchard: Doris


TRAMA: Rifkin accompagna la moglie Sue, ufficio stampa, al San Sebastian Film Festival, in Spagna. Mentre lei si dedica al giovane e brillante regista francese suo cliente, Rifkin ha un'intesa particolare con Jo, una bellissima dottoressa del posto.


Voto 6,5

Puntualmente, con costanza invidiabile, certa come una data ricorrente, Woody Allen sforna il suo film annuale, dato che – come io lo immagino in casa sua – ha sempre qualcosa da scrivere e ha sempre qualcosa da dire, forse un po’ ripetendosi ma sempre sorprendendoci. Ripetendosi perché gli argomenti personali, grosso modo, sono facilmente gli stessi e lo riguardano direttamente, perché lui parla sempre di sé e della sua filosofia esistenziale, quella che lo anima da quando era giovane, che lo spinge a riflettere a voce alta, o meglio scrivendo oppure recitando, in prima persona o affidandosi ad una controfigura. Persino femminile come nel caso stupefacente di Cate Blanchett in Blue Jasmine (recensione), perfetta traslazione della persona/lità dell’autore newyorkese in quella nevrotica protagonista. Anche in questa opera non manca nulla del suo cinema: qualche nevrosi, un protagonista non più giovane alquanto ipocondriaco (anche per opportunismo relazionale), qualche bella donna possibilmente non in là con gli anni (tasto dolente che può aprire qualche ferita), dialoghi serrati. Serrati fino ad un certo punto, però, perché la recitazione del divertente e patetico Wallace Shawn nel ruolo dell’alter ego Mort Rifkin è, diversamente dai protagonisti degli altri film, una persona che parla piano, per cui in questa occasione si ha il tempo di leggere con calma i sottotitoli dei tipici dialoghi veloci che Woody scrive sin dai primi tempi.

Sappiamo bene che Allen ha avuto il physique du role solo per i suoi personalissimi personaggi, mai sarebbe stato l’attore ideale per altri autori, e difatti per l’occasione ha pensato bene di chiamare un bravo caratterista come Wallace Shawn: spalle curve, camminata incerta, gesti nevrotici ma meno del solito, fisico di certo non atletico. E per giunta con continui sintomi di malattie che se prima lo affliggevano saltuariamente, ora a San Sebastian - dove si è recato con l’attraente moglie Sue, press agent di Philippe, un famoso giovane regista francese – da quando ha conosciuto la bella dottoressa Jo Rojas, ne denuncia molti altri. Tutti pretesti per poter andare nello studio medico, farsi visitare e cogliere momenti per chiacchierare con quella donna che lo attira molto, e magari strappare l’assenso per un appuntamento, una gita, un drink. E così ecco il dolore al petto, una bolla sul dorso della mano, un fischio all’orecchio. Ma principalmente Woody Allen parla di cinema, del cinema che ha sempre amato: quello europeo d’autore.

Sarebbe diminutivo parlare di omaggi o citazioni. No, Woody ci trasporta, mediante i sogni notturni di Mort o la sua fantasia, nelle opere della Nouvelle Vague (citando chiaramente i nomi di Godard, Truffaut, e un Lelouch chiaramente fuori posto) o in quelle italiane (vedi Fellini) ma con forti richiami a quello che secondo il mio modesto parere è quello a cui Allen si è particolarmente avvicinato quando ha scritto i film sulle donne: Ingmar Bergman. Ecco allora rigirati con i suoi attori Quarto potere, 8 ½, Jules e Jim, Un uomo, una donna, Fino all’ultimo respiro, Persona, Il posto delle fragole, L’angelo sterminatore, Il settimo sigillo, tutti in un adeguato bianco e nero che l’immancabile Vittorio Storaro gli ha servito. Non sono assolutamente omaggi e riferimenti gratuiti, sono funzionali alla sceneggiatura e alla trama del film. Mort soffre avvertendo il distacco della moglie, sempre più attratta da quel montato di testa del regista francese, ma da quando ha perso la testa per la giovane dottoressa cerca di consolarsi trascorrendo qualche ora con lei, con non velati inviti a trasferirsi a New York dove, inevitabilmente, tornerà alla fine del festival. Lui è un professore di cinema ed è consapevole che il cinema che ama è datato e annoia le persone con cui ne parla, ma è con quel repertorio che si consola e che trova riflessi e conferme della vita quotidiana. Fino ad immaginare la mitica bergmaniana partita a scacchi con la Morte (che sorpresa Christoph Waltz!) per rinviare quell’appuntamento finale che tanto affligge Allen. Morte da cui riceve incredibilmente i consigli per vivere più a lungo: mangiare frutta e verdura, non fumare, abbassare il colesterolo. Hai visto mai che quella figura in mantello nero ti fa capire che il tuo momento è piuttosto lontano? Beh, quello dedotto dal dialogo conclusivo tra la Morte e Mort (e quindi quello del regista) sembra tanto una previsione più che un auspicio. Mica male!

Le commedie degli ultimi anni di Woody Allen sono piacevoli opere dialoganti che trattano sentimenti molto umani, sociali, che si infilano nella sceneggiatura con riflessioni tramite le abituali battute divertenti, come sempre di carattere filosofico ed esistenziale: l’amore, la salute, i rapporti interpersonali, i matrimoni in crisi, i frequenti riferimenti alla religione ebraica, il presente e la paura del futuro, il forte legame con il cinema europeo d’autore. Con eccezione de La ruota delle meraviglie (recensione), che sicuramente è uno dei suoi migliori film, anzi per lui è il migliore in assoluto degli ultimi tempi (credo proprio che gli si debba dar ragione!), i più recenti non saranno prodotti di grande livello ma, come mi piace scrivere sempre, se fossero film di altri registi sarebbero giudicati con più benevolenza: la critica aspetta Allen sempre al varco per criticarlo, ma vorrei vedere se esiste al mondo un autore capace di sfornare con cadenza annuale un film che come minimo è gradevole e amabile, fitto di battute intelligenti. Come proprio in questo caso, dato che ci si accorge che come sempre lo si guarda con il sorriso fisso e con il particolare positivo che son tutti film che non durano più di un’ora e mezza. Il continuo fango che gli buttano addosso, secondo me, lo spinge a maggior ragione a scrivere e girare, sfogando la sua inesauribile vena di creatore, quasi facendo finta di nulla, e forse faticando oggi a trovare gli interpreti che non lo vogliono boicottare. Tanto che pare che l’ambientazione stavolta è stata la città di San Sebastian perché lì è stato accolto senza remore, come penso sia successo anche con gli attori di questo film: il simpatico Wallace Shawn, solitamente in seconda fila, la sensuale Gina Gershon, idem e occasione da non sprecare, la brava Elena Anaya, che mai si sarebbe immaginata di rifiutare, ed infine Louis Garrel, perfetto per un personaggio supponente e antipatico come il suo, che si sarà sentito onorato di essere chiamato da un regista di tale livello. Tralascio le polemiche su chi oggi si dichiara pentito di aver lavorato in passato per Allen, perché li insulterei.

Il resto del cast artistico è molto buono e quello tecnico è all’altezza della situazione, a cominciare da Vittorio Storaro che ormai da qualche anno dà l’impronta personale alla fotografia di Woody, con quella colorazione carica riconoscibilissima. E poi, come sempre, la rituale grafica dei titoli di testa e di coda, e le musiche swing immancabili: impronte alleniane. Tutto ciò per rappresentare i concetti del film che l’autore spiega limpidamente: “Mort, il protagonista di Rifkin's Festival, vorrebbe essere prima di tutto un credente, qualsiasi cosa possa la parola significare. La religione, Dio, il significato della vita o la sua mancanza di significato sono temi sempre presenti nella sua testa. Questa è la ragione per cui non può mai apprezzare il cinema di Philippe, che tratta di argomenti politici o di guerra: sono temi importanti ma non significativi per Mort. La sua idea di cinema è legata ai film che ha visto tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, quelli in cui si è formato. Registi come Fellini, Bergman o Truffaut, con i loro film, si preoccupavano del senso della vita. Guardandoli, Mort ha capito quanto fondamentali fossero certe domande ed è anche per questa ragione che è attratto dalle chiese, sebbene sia un agnostico cresciuto nella comunità ebraica. Ai film che vedeva deve anche la sua concezione di amore.”


Risulta evidente che Mort rappresenti in toto Woody? Direi proprio di sì! D’altronde anche questa commedia, a tratti ingenua, in altri acida, spesso sincera, mescola come c’era da aspettarsi la farsa al tragico, come prevede il canone ebraico, che sa ridere amaramente e sarcasticamente del destino e degli eventi poco fortunati della vita.


Mort Rifkin: Nessuno vuole morire. Nemmeno per amore.

Jo Rojas: Non moriresti per amore?

Mort Rifkin: Francamente preferirei non morire per niente. E questo include la malattia, i giorni da anziano o il soffocamento con una ciambella.


Immarcescibile Woody!



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