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Saltburn (2023)

Aggiornamento: 26 gen


Saltburn

USA/UK 2023 dramma/thriller 2h11’


Regia: Emerald Fennell

Sceneggiatura: Emerald Fennell

Fotografia: Linus Sandgren

Montaggio: Victoria Boydell

Musiche: Anthony Willis

Scenografia: Suzie Davies

Costumi: Sophie Canale


Barry Keoghan: Oliver Quick

Jacob Elordi: Felix Catton

Rosamund Pike: Lady Elspeth Catton

Richard E. Grant: Sir James Catton

Alison Oliver: Venetia Catton

Archie Madekwe: Farleigh Start

Carey Mulligan: Pamela

Paul Rhys: Duncan

Ewan Mitchell: Michael Gavey

Sadie Soverall: Annabel

Millie Kent: India

Reece Shearsmith: prof. Ware

Dorothy Atkinson: Paula Quick

Shaun Dooley: Jeff Quick

Lolly Adefope: Lady Daphne

Joshua McGuire: Henry


TRAMA: Uno studente dell'Università di Oxford si ritrova attratto dal mondo di un affascinante e aristocratico compagno di classe, che lo invita nella vasta tenuta della sua eccentrica famiglia per un'estate indimenticabile.


Voto 7

Ci sono film di cui, per volerne parlare, non si può prescindere da iniziare riferendosi a chi lo ha immaginato e magari anche realizzato. È il caso di Emerald Lilly Fennell, una londinese dell’85 che è attrice, sceneggiatrice, regista e qui anche produttrice (assieme tra gli altri a Margot Robbie) dopo l’esperienza in questa veste nella serie di successo Killing Eve in cui è subentrata nella scrittura a Phoebe Waller-Bridge per alcuni episodi. Il vero salto di qualità e di notorietà l’ha raggiunto con il suo primo film da regista (Una donna promettente, del 2020) per il quale è stata candidata a diversi premi, vincendo l’Oscar e il BAFTA per la sceneggiatura. Perché è proprio lì che sa eccellere, oltre a saper mettere in scena le sue idee alquanto provocatorie e dissacranti. Dopo quel debutto, che aveva spiazzato non poco, dando la possibilità a Carey Mulligan di potersi esprimere in modo eccellente e fuori dai soliti ruoli, era logico chiedersi che cosa sarebbe stata capace di fare in seguito. Vien proprio da dire che non ha deluso: a prescindere se il film piaccia o meno (la critica e i cinefili sono molto divisi e ciò è il pepe giusto per far discutere), non è un’opera che passa inosservata. Anzi, tutt’altro.

Che si sia ripetuta nella cifra stilistica, nella scrittura e nella regia per sconquassare e sorprendere è innegabile e porta a riflettere sugli aspetti che caratterizzano il film. Oltre a confermare quello che ci si poteva attendere dopo l’esordio, andando anche oltre le attese di un cinema che suscita reazioni, vengono in mente riferimenti che riguardano il modo di fare arte di altri cineasti e delle trame presentati da questi: non possono sfuggire paragoni con Il talento di Mr. Ripley oppure gli spiazzamenti provocati da Parasite, The Menu, Glass Onion: Knives Out, ma soprattutto da Triangle of Sadness. Ma, almeno per chi scrive, non si può fare a meno di ricordare Il sacrificio del cervo sacro, anche e non solo per l’inquietante presenza (lo è sempre) dell’attore protagonista Barry Keoghan. Quindi cinema confermato dalla prima opera, atmosfere angoscianti e a tratti cupamente paradossali, attuazione di piani premeditati per vendetta (primo caso) o per ingordigia dissennata (secondo caso) ed in più la scelta oculata di un cast, specialmente in questo caso, di nomi eccellenti che la Fennell dimostra ampiamente di saper dirigere.

In una trama che graficamente si potrebbe disegnare come una iperbole che cresce di minuto in minuto, lentamente ma inesorabilmente ogni personaggio diventa sempre più diverso da come lo si era immaginato e che non si sa fin dove può arrivare. A tal proposito l’Oliver Quick di Barry Keoghan è il campione assoluto. Succede infatti che (siamo nel 2006) il timido e riservato giovanotto cerca faticosamente di trovare il suo posto all’Università di Oxford, dove non riesce – così pare, così dimostra, così si comporta – ad inserirsi nei vari gruppi che si creano nell’ambito di un college. L’unico che gli concede spazio accanto e gli rivolge la parola è un tipo che nessuno vuole come amico, un ragazzo che si autodefinisce genio in matematica anche se non gli piace la materia. Subito è chiaro che non è colui che cerca Oliver, che invece si guarda in giro per trovar migliori amicizie. Riesce difatti ad agganciare il vanesio, vanitoso, ricercato dalle belle ragazze Felix Catton, studente bello, ricco e pieno di amici, che per ringraziarlo per essere stato aiutato in un momento di difficoltà lo introduce nella sua cerchia, a cui Oliver si apre, finalmente, rivelando la sua triste situazione di giovane povero, con gravi problemi nella famiglia da cui è fuggito via: genitori tossicodipendenti, padre morto per il vizio, madre disastrata che non vuole più vedere. Impietositosi, l’altro lo aiuta ad entrare nella sua comitiva e, giunta l’estate, lo invita addirittura a passare le vacanze nella enorme tenuta di campagna della famiglia Catton, in località Saltburn, emblema della loro ricchezza e agiatezza. Come se la regista tornasse nel castello dove ha recitato in The Crown: lusso, stuolo di camerieri, parco con tanto di labirinto (luogo importante per alcuni eventi), ospiti fissi, feste smisurate. Insomma, un sogno per lo squattrinato protagonista, tutto da godere e sfruttare. Poi, chissà. È il luogo, invece, dove la situazione sprofonda in una spirale di violenza e bugie dove nessuno è quel che sembra.

Chi non conosce il film penserà: ma è una situazione già vista altre volte! Già, ma non ha fatto i conti con la scrittura della Fennell. In un crescendo di eventi, di personaggi squinternati (non si salva nessuno), di ricevimenti con spreco di cibo, bevande e intrattenimenti, si ha modo di conoscere il carattere e il comportamento dei vari personaggi che lì vi abitano o che vivono in qualità di ospiti. Di ognuno di loro, a partire dal capofamiglia Sir James Catton (Richard E. Grant) e continuando con la consorte Lady Elspeth (Rosamund Pike), la sorella di Felix Venetia (Alison Oliver), poi il giovane cugino Farleigh (Archie Madekwe) e la stravagante ospite (l’aggettivo è molto riduttivo) Pamela (Carey Mulligan, ancora una volta fuori dalle righe per questa regista). Per tutti questi ci vorrebbe un capitolo a parte per poterli descrivere. Tutta la storia gira intorno alla coppia amicale Oliver-Felix, che ha alti e bassi, a seconda dei dialoghi e delle incomprensioni (solo apparenti, tutto è studiato da parte del primo), ma soprattutto coppia contrassegnata da un serpeggiante e incombente attrazione fisica che ha del morboso. Il micidiale Barry Keoghan aveva iniziato con il suo personaggio che sembrava un ragazzo sfortunato ed educato (persino con gli occhiali da studente nerd), dopo, invadendo gli spazi psicologici altrui, assume la difformità corporea e mentale già disegnata da Lanthimos e McDonagh, cioè la figura che meglio sa esprimere, con l’invadenza invisibile ma prepotente, l’accorciamento della distanza che diventa opprimente, lo sguardo curioso e incuriosito, l’indifferenza che aggredisce, il ciondolio e il gesticolio dell’insane. Dove vuole arrivare? Qual è il suo scopo? Oltre che masturbarsi sulle tombe, provocare eroticamente l’interlocut(ore/rice), stabilire la somma equa per sparire dalla circolazione… Ogni passo ulteriore è spoiler.

La domanda, ad un certo momento, è se Felix sia per lui un punto di arrivo oppure un semplice traguardo, un trampolino, una chiave d’accesso; se sia tutto studiato oppure improvvisato a tamburo battente a seconda del dispiegarsi delle situazioni createsi. Chi è veramente Oliver Quick? A Emerald Fennell forse neanche interessa o più semplicemente non ce lo vuol dire e alla fine di questa specie di “dieci piccoli indiani”, abbastanza british ma parecchio dissacratorio, ciò che conta è il risultato, per giunta impunito. Sì, certo, non tutto fila liscio, a qualcosa l’autrice soprassiede, dato che il suo obiettivo è ridacchiare alle nostre perplessità, ma lei si diverte a scrivere e realizzare questi racconti iconoclastici e trasgressivi, di sicuro anticonformisti e in un certo qual modo innovatori, dal momento che non ci sono all’orizzonte cineasti famosi che portano sullo schermo storie simili o perlomeno raccontate in questa maniera irriverente. Fatta eccezione per gli autori dei titoli su menzionati. Che sono pochissimi, chi meglio, chi peggio. Che, comunque, hanno tutti, proprio tutti, acceso energiche discussioni, compreso questa occasione. I motivi della diversità di vedute sia tra gli addetti che tra gli spettatori risiedono nel modo in cui il film è stato concepito a priori e quindi realizzato secondo quelle idee.

La dimostrazione la si trova in alcune sequenze, come per esempio il finale dove Oliver cammina completamente nudo all’interno della tenuta, zeppa di opere d’arte rarissime, ripreso con una carrellata lungo i corridoi e le stanze principesche mentre lui danza di spalle e di profilo rispetto alla macchina al ritmo di Murder on the Dancefloor di Sophie Ellis-Bextor. Una sequenza girata ben 11 volte prima di arrivare a quella che piaceva alla regista, che mirava a stimolare le giuste sensazioni al pubblico affinché avvertisse un senso di gotico e barocco, certamente sopra le righe. Un interno in cui - come si vede sin dal primo giorno in cui i due studenti arrivano e Felix fa da guida negli immensi spazi a disposizione – spiccano saloni, giardini, soffitti affrescati molto alti, ragione per cui sono risultati molto adatti due attori lungagnoni, Jacob Elordi e Archie Madekwe, adatti allo schermo in 4:3. Una casa enorme che se dà l’impressione di essere enorme è funzionale alla sensazione di essere sempre osservati, di dover fare attenzione ai propri comportamenti: un comfort solo apparente che in realtà nasconde con costanza un pericolo crescente. A questo scopo efficaci si rivelano sia la fotografia di Linus Sandgren (Babylon, No Time to Die, First Man – Il primo uomo, premio Oscar per La La Land) che la scenografia di Suzie Davies (Turner, L’ombra delle spie, Peterloo, Chesil Beach - Il segreto di una notte).

Il film, che affronta, in definitiva, l’argomento dell’amore, del desiderio, dell’innamoramento in giovane età, vede un cast ottimo in cui Barry Keoghan ha modo di confermare la sua personalità d’attore sghembo, ma non è l’unico da notare. Jacob Elordi (fattosi notare in Euphoria e Priscilla) è una bella scoperta e ne sentiremo parlare. Poi ci sono tre attori notevolissimi: Richard E. Grant in un ruolo nello stesso tempo delizioso e demenziale; Rosamund Pike è così integrata nel panorama che sembra sia vissuta sempre lì, superlativa; ed infine il maggiordomo inglese perfetto, Paul Rhys, che è Duncan, l’incarnazione della casa. Poco più di un cameo per Carey Mulligan, in uno dei personaggi più bizzarri del film e della sua carriera.

Emerald Fennell: “Spero che la discussione si faccia chiassosa. Mi piace quando si discute, si litiga, quando non si è d’accordo. Inoltre spero che nulla sembri inverosimile. Voglio dire, non penso che tutti abbiamo fatto le cose assurde che si vedono ma di certo tutti conosciamo la mortificazione che il desiderio porta.” La cosa certa è che il film è questa cosa di cui lei parla e, piaccia o no, il lavoro della regista stimola parecchio e chi non è, legittimamente, soddisfatto si tenga Alberto Sordi, come asseriva Nanni Moretti. O no?

Da notare, infine, due aspetti allegorici che possono sfuggire. La gentilezza che usa il protagonista in maniera spudoratamente falsa e ipocrita, persino eccessiva in alcuni momenti, uguale a quella di un bifolco in casa dei signori, è solo uno strumento per entrare apparentemente in punta di piedi nell’ambiente che lo accoglie con tanto snobistica generosità (falsa come lui) e dimostra quanto paghi in tante occasioni. Secondo, la storia può essere interpretata come una prova di sovversione eversiva dello status quo, di ribellione sanguinaria del ceto medio-povero ai danni di quello ricco, troppo ricco per essere lasciato in pace. Il ribelle, l’estraneo, l’eversivo entra in casa e disabilità i sistemi di allarme, si insinua tra le rughe della tradizione aristocratica, scardina l’ordine prestabilito e invecchiato, distrugge l’architettura consolidata come un cancro e la fagocita, facendola sua. In ogni senso. Ecco, questo è il film.

Riconoscimenti

2024 - Golden Globe

Candidatura miglior attore in un film drammatico a Barry Keoghan

Candidatura miglior attrice non protagonista a Rosamund Pike


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