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Immagine del redattoremichemar

Spider (2002)

Aggiornamento: 3 ago 2019



Spider

Canada/UK/Francia 2002, drammatico, 1h38'


Regia: David Cronenberg

Soggetto: Patrick McGrath (romanzo)

Sceneggiatura: Patrick McGrath

Fotografia: Peter Suschitzky

Montaggio: Ronald Sanders

Musiche: Howard Shore

Scenografia: Andrew Sanders

Costumi: Denise Cronenberg


Ralph Fiennes: Dennis "Spider" Cleg

Bradley Hall: Dennis "Spider" Cleg (giovane)

Miranda Richardson: signora Cleg / Yvonne

Gabriel Byrne: Bill Cleg

Lynn Redgrave: signora Wilkinson

John Neville: Terrence


TRAMA: Un uomo affetto da schizofrenia paranoica vive la sua ormai triste vita in un'orrenda pensione assieme ad altri uomini distrutti dagli eventi. Qui inizia a ricordare la sua vita, e risalendo nei ricordi scopre che forse la sua malattia ha origine nella figura del padre, il quale anni prima aveva abbandonato la moglie e il figlio per una prostituta. Vive in un tempo tutto suo, in cui passato e presente, realtà e allucinazione, si sovrappongono incessantemente. Spider è schizofrenico, e la sua vita fuori dalla casa di cura spazia in un disordine indefinito. Spider cerca le immagini giuste, il bandolo della matassa che gli si è tessuta intorno come una ragnatela, la faccia di sua madre nei volti di tutte le donne che incontra.


Voto 8


Pochi film come questo possono riassumere al meglio il lungo percorso artistico di David Cronenberg nella sua fase cruciale di maturazione, percorso che lo ha visto al massimo allucinatorio e visionario negli anni di Videodrome, La zona morta, Inseparabili, Crash, solo per citarne qualcuno, per arrivare poi a quella fase che si potrebbe definire “adulta”, con riflessioni più mirate verso il comportamento dell’uomo meno influenzato dalla psiche e più dalle circostanze. Difatti seguiranno, principalmente, A History of Violence, Cosmopolis e Maps to the Stars, cioè storie di violenza quotidiana più umane che visionarie, più terrene e meno surreali. Suggestionate sempre da moventi psichici di vario tipo, ma pur sempre più motivate da comportamenti umanamente comprensibili: mafia, affari finanziari, ricerca smodata del successo nella società.


Spider è forse l’apice del lungo discorso di Cronenberg nello sterminato cammino nell’influenza della psiche sul comportamento dell’individuo, che per il regista sfocia inevitabilmente nel delirio e nel visionario. Allo scopo ha utilizzato una storia che ha qualcosa di circolare, di ellittico, parendo essa avvitata attorno all’esperienza di uno strano personaggio, Dennis "Spider" Cleg, il quale alla fine ha quasi l’impressione di ri-trovarsi all’inizio della trama. Un cerchio oppure un palindromo, non si sfugge: giri continuamente attorno alla vicenda oppure ti pare di riviverla all’indietro. Già la prima impressione che si riceve durante la visione della prima sequenza offre l’antipasto di ciò che seguirà. L’umidità delle pareti durante la lettura dei titoli iniziali ha giusto la forma di una ragnatela, sembra già di trovarsi impigliati nei fili secernuti da un ragno, prigionieri di una storia senza scampo. Inoltre il numero del treno con cui Dennis arriva alla stazione di periferia (in realtà torna nel quartiere della sua adolescenza) è un numero inquietantemente palindromico: 47774. Abbiamo quindi i primi due elementi che Cronenberg ci offre e che ci servono per capire quale percorso difficoltoso troveremo per seguire la storia. E poi ancora gli edifici di quel quartiere sono tutt’altro che rassicuranti: cercando l’indirizzo della signora Wilkinson dove l’ospedale psichiatrico lo ha trasferito per poter essere reinserito nella società civile, gli edifici sono vecchi, screpolati e soprattutto con finestre murate. La sua mente è chiusa, da molto tempo, e lo aspetta un luogo dove vivere con poca luce, poca aria, scarsa visione del futuro? Ma è un crescendo continuo, tra mistero e incomprensione, così come è incomprensibile quello che scrive. Dennis infatti annota tutto quello che vede e che lo colpisce, lo annota di continuo su un piccolo diario che nasconde a tutti, nei posti più impensabili, lo nasconde come farebbe con la sua anima segreta, ma la caratteristica più evidente è che ciò che scrive con quella sua malandata matita è un insieme di strani geroglifici, illeggibili come le parole incomprensibili che pronuncia continuamente come fosse sotto (auto)dettatura. È un borbottio continuo che lui traduce in segni misteriosi di matita e chissà se in seguito riuscirà egli stesso a rileggerli. È come il suo passato, che non riesce più a decifrare. La sua mente è un dedalo, è una ragnatela fitta di fili che si dipanano nei meandri, un filo di Arianna che però non lo porta da alcuna parte. La sua dolce mamma, che tanto amava, lo chiamava affettuosamente “Spider” e lui ha portato per sempre con sé la necessità di convivere con l’idea dei fili di una ragnatela, sempre presenti nella sua vita. Gli raccomandava sempre di terminare i compiti, così come fanno i ragni allorquando confezionano le loro perfette opere d’arte chiamate ragnatele.


Il suo trauma infantile si era sviluppato con l’omicidio della sua cara mamma e nei suoi ricordi, vaghi e imprecisi ma sempre rinvenienti, rivede la scena del padre, odiato e poco presente nella sua adolescenza, che la uccide per poter godere con maggior libertà la compagnia della prostituta Yvonne che si era portato in casa. È tutta la vita che rivede nella mente la brutale scena, ma quando, non sopportando più la presenza della signora Wilkinson che lo ospita con gli altri malati psichici, tenta di ucciderla allora egli realizza ciò che veramente era accaduto nella sua vecchia casa. Perché in effetti, “La cosa peggiore che può accaderti non è perdere la ragione, ma ritrovarla.”


Ralph Fiennes più che in altre occasioni si dimostra un attore emblematico, che lascia il segno e che caratterizza fortemente il personaggio interpretato. Tutta l’inquietudine di Dennis viene esternata dal suo viso, dai suoi tic, dal suo portamento incerto e spaventato da ogni cosa che lo sfiori, è insomma un ruolo perfetto e nelle corde dell’attore britannico, poche volte a suo agio come questa volta.

Anche questa volta David Cronenberg fa centro: questi argomenti sono (e lo erano maggiormente una volta) il suo pane quotidiano, la sua materia preferita, che poi lo ha portato ad affrontare in maniera più didattica con A Dangerous Method. Le sue inquadrature così vicine, con primi piani ravvicinatissimi, con i visi ingranditi e deformati dall’obiettivo a pochi centimetri, riescono a creare pathos e tensione allo stesso tempo come fosse un film horror, ed horror certamente non è. Al limite è orrorifico quello che la mente può creare in una personalità che ha sofferto un trauma da cui non riesce a liberarsi, è orrorifico ciò che ci si trascina dietro per una vita intera. Orrorifico è il suo modo di rivivere gli episodi che non cancella dalla mente, rivivendoli seguendo se stesso da bambino come fosse presente ancora una volta lì: più che essere un attore di quegli avvenimenti è un inquietante ed inquietato testimone.



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