The Apprentice - Alle origini di Trump (2024)
- michemar
- 20 gen
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 25 gen

The Apprentice - Alle origini di Trump
(The Apprentice) Canada/Danimarca/Irlanda/USA 2024 biografico 2h2’
Regia: Ali Abbasi
Sceneggiatura: Gabriel Sherman
Fotografia: Kasper Tuxen
Montaggio: Olivier Bugge Coutté, Olivia Neergaard-Holm
Musiche: David Holmes, Brian Irvine, Martin Dirkov
Scenografia: Aleksandra Marinkovich
Costumi: Laura Montgomery
Sebastian Stan: Donald Trump
Jeremy Strong: Roy Cohn
Maria Bakalova: Ivana Trump
Martin Donovan: Fred Trump Sr.
Catherine McNally: Mary Anne Trump
Charlie Carrick: Fred Jr. “Freddy” Trump
Ben Sullivan: Russell Eldridge
Joe Pingue: Anthony Salerno
Mark Rendall: Roger Stone
Eoin Duffy: Tony Schwartz
Bruce Beaton: Andy Warhol
Ian D. Clark: Ed Koch
Tom Barnett: Rupert Murdoch
Stuart Hughes: Mike Wallace
TRAMA: Negli anni Settanta un giovane Donald Trump viene preso sotto l’ala protettrice dell’avvocato Roy Cohn, che gli insegnerà segreti e regole che governano lo spietato mondo degli affari, sui quali Trump baserà la sua carriera e visione del mondo.
VOTO 6,5

L’apprendista Donald John Trump non è classificabile come stregone, piuttosto è il tipo che non solo impara in fretta, osserva attentamente ciò che accade intorno per sfruttare ciò che gli può servire, ma sa bene quel che vuole e deve fare, controllando a sufficienza le conseguenze delle sue azioni. Magari rischiando parecchio, a volte con una buona dose di incoscienza, ma è un personaggio spericolato senza mai mettere in conto l’eventuale fallimento. Sopra ogni cosa, comunque, è dotato di quel coraggio di lucido avventato che, spinto da una grande volontà di emergere, agisce e tiene sotto controllo gli effetti del suo comportamento, correndo, all’uopo, a correggere la traiettoria e indirizzarla sempre pro domo sua. E, soprattutto, ha la cattiveria di farsi strada senza pentimenti, senza curarsi dei danni alle persone che ha accanto. Impara, mette da parte e applica gli insegnamenti ricevuti o percepiti.

New York anni ‘70. Determinato ad uscire dall’ombra del potente padre e a farsi un proprio nome nel settore immobiliare di Manhattan, l’aspirante magnate Donald J. Trump è agli inizi della sua carriera quando incontra colui che diventerà una delle figure più importanti della sua vita: il faccendiere Roy Cohn. Intravedendo in Donald un giovane promettente, il controverso avvocato – con un passato di indagini sui sospetti comunisti insieme al senatore Joseph McCarthy e condannato per spionaggio contro Julius e Ethel Rosenberg – insegna al suo discepolo come accumulare ricchezza e potere tramite l’inganno, l’intimidazione e la manipolazione dei media. Il resto è storia.

La parabola che Ali Abbasi ed il suo sceneggiatore Gabriel Sherman disegnano del personaggio (lo è nel significato pieno) è spietata, ne spiega la ferocia caratteriale, la forte volontà di vincere le piccole e grandi battaglie imprenditoriali, la famelica voracità di arrivare in cima al mondo, prima come industriale immobiliare poi – ma questo non viene mostrato ma solo intuito – come uomo che entra nell’agone politico per sfondare anche in quel campo. Non per amore (falso) verso la patria ma per proteggere il patrimonio accumulato nel frattempo, sin dal primo azzardo finanziario, quando comincia la scalata al successo. Figlio di costruttore nel campo dell’edilizia, intraprende la stessa strada senza il minimo scrupolo su chi, familiare e non, si interpone tra sé e il traguardo da conquistare, trascurando fratello, padre, moglie. Anzi, quasi passando sui loro corpi. Per esempio, quando cerca di far firmare un documento al papà Fred (un irriconoscibile Martin Donovan) ormai malato e poco cosciente che lui presenta come assunzione del comando del trust familiare e che invece è una firma di garanzia per le sue oltremodo spericolate operazioni. Fermato a malapena dalla madre che invece percepisce le malefatte che vuol compiere a spese del patrimonio familiare.

Un cane affamato? Di più, una bestia famelica senza riguardi che non paga, evade, corrode i politici per avere permessi e facilitazioni fiscali, dato che il patrimonio si ingigantisce ma la liquidità è scarsissima e i debiti sono enormi. Quando ormai ha realizzato parecchio dei suoi disegni immobiliari (la colossale Trump Tower è ormai realizzata, ha allargato i confini degli investimenti anche a Las Vegas) capisce, con il suggerimento di un giornalista che lo intervista, che per difendersi deve entrare in politica mirando molto in alto. Abbiamo avuto nella nostra recente Storia un clamoroso esempio, gli italiani lo hanno votato, gli americani lo votarono e lo hanno rivotato perché esaltati di rendere l’America più grande, sfruttando un detto molto più gentile di un precedente presidente. Fai l’America più grande, per rendere più grande lui e salvaguardare il proprio patrimonio.

I tre principi che impara da giovane dal potente avvocato Roy Cohn (Jeremy Strong) - quando questi neanche lo considerava ma lo inserì nella sua famigerata cerchia e poi ne divenne il perfetto difensore e consigliere - diventano alla fine propri, come inventati da lui. L’ascesa al potere finanziario e politico è segnata da questi principi: attaccare sempre, negare tutto e mai riconoscere la sconfitta. Spietatamente attaccare appena percepito un’offensiva in arrivo (legale, fiscale, di concorrenza, di maldicenza); negare sempre e tutto, mai ammettere una irregolarità scoperta dagli agenti federali o dalle inchieste, anche giornalistiche; non ammettere mai di essere stato sconfitto, anzi affermare il contrario, dire che la vittoria è ottenuta. Tutto ciò con cattiveria imprenditoriale e anche politica, come nella realtà abbiamo visto, negli ultimi anni, di presidenza e di campagna elettorale tra i due mandati. Per attuare questo piano triplice si è servito di chiunque gli facesse comodo.

Si innamora della appariscente cecoslovacca Ivana Zelníčková (Maria Bakalova, affermatasi con la candidatura agli Oscar come miglior attrice non protagonista per Borat - Seguito di film cinema) e la fa sua perché, almeno così afferma, se ne è invaghito e la vuole sposare a tutti i costi, salvo poi accantonarla nel pieno delle attività, passando attraverso il periodo in cui la donna ha capito l’egoismo e l’egocentricità del marito, uniche caratteristiche che lo animano. Sin dall’inizio del legame la copre di ogni cosa desideri, ma non pare mai veramente sincero: tutto ha un solo scopo, l’affermazione personale e la scalata al potere di qualsiasi colore. Anche se lo inseguono creditori e avvocati di chi attende pagamenti, dipendenti non compensati, e via dicendo, lui prosegue sordo sul suo cammino lasciando la strada disseminata di amicizie dimenticate e parenti respinti. Come il fratello Freddy, pilota d’aerei allo sbando e morto da solo, o come il fraterno Roy Cohn, prima indivisibile come un gemello e poi lasciato morire di AIDS nell’indifferenza. Ciò che conta è lui, Donald J. Trump!

Dall’alto del suo ufficio panoramico, il giornalista che ha chiamato alla sua corte per fargli scrivere il libro sulla sua vita gli dà l’idea, seppur allora vaga, di entrare in politica, visto che lui è capace di salire in cima ad ogni montagna che pare irraggiungibile. Lui sembra scettico ma il seme è gettato è quindi, perché no? Lo abbiamo visto e lo vedremo ancora all’opera, gettando lo scompiglio tra gli avversari e chi teme per la democrazia uccisa dalla leadership e dalla concentrazione di un governo autocratico che ha un controllo significativo sulle decisioni politiche e amministrative. Il modello Trump, portato nella più alta sfera della politica, è una iattura per gli oppositori che va oltre una normale sconfitta elettorale, perché l’uomo al comando è difficilmente controllabile dai contrappesi democratici.

Fa impressione come a questo particolare argomento, a questa biografia graffiante e implacabile, vi si sia dedicato un regista come Ali Abbasi, iraniano naturalizzato danese, che nella vita ha realizzato film di ben altra natura. Prima il sorprendente Border - Creature di confine, thriller di fantasia quasi fantascientifica per rappresentare la Svezia agli Oscar, poi il bellissimo dramma di Holy Spider con cui Zahra Amir Ebrahimi ha vinto il premio come miglior attrice a Cannes 2022. Qui, in pratica, si assiste ad un salto mortale carpiato di grande difficoltà almeno per il semplice passaggio ad una discussa biografia. Tre soggetti completamente differenti, tre film lontani, tre personaggi distanti: una donna che lavora in dogana con un fisico massiccio e un naso eccezionale per fiutare le emozioni degli altri (!), poi una giornalista sulle tracce di un serial killer iraniano (veramente esistito), ora un uomo senza scrupoli nel percorso verso la Casa Bianca.

Un film, perciò, memorabile? Non direi, no. Piuttosto un buonissimo film che per due ore macina ogni tipo di situazione e avvenimento che rivela i tanti lati (o forse l’unico) che caratterizzano la personalità di un uomo che, potente nel proprio campo di azione commerciale, per due volte è diventato colui che guida la nazione ritenuta la più potente della terra, la sua inarrendevolezza, l’ego, l’avidità, l’anaffettività, i soprusi con cui si è fatto largo, l’inaffidabilità verso parenti e amici solo apparentemente ritenuti tali. Allora come oggi conta solo se stesso, il tycoon avventuriero ma così spregiudicato che si è sentito martire nel perdere una “S” a questo aggettivo, aumentando l’aurea di vittima e nello stesso tempo di un individuo inseguito ingiustamente dalla giustizia americana, come un cittadino qualsiasi perseguitato, uno di loro, che lo votano in ogni maniera. Ali Abbasi, qui alla sua prima opera in lingua inglese, fa certamente un buon lavoro anche perché il cinema statunitense non è abituato al genere politico che invece in Italia è sempre stato molto frequentato negli anni, eccezion fatta per alcune polemiche e retoriche pellicole di Oliver Stone. E in quella terra forse non ha neanche avuto il tempo per incidere, data la vicinanza con le elezioni 2024 e dato il notevole movimento di massa che si è mobilitato a favore del suo eroe, che nel film fa di tutto per dimagrire, farsi operare di liposuzione, trapiantare i capelli, sembrare l’uomo che risolve ogni problema dell’americano medio, portando l’America lì dove è giusto che stia, per lui e chi lo segue.

Lo schermo se lo rubano, a seconda dei momenti, entrambi gli attori protagonisti (sì, in alcuni tratti l’avvocato si prende la scena, eccome!) Sebastian Stan e Jeremy Strong. “Come si può interpretare la persona più famosa del mondo?”, si è chiesto Sebastian Stan, il quale cerca la mimesi, non l’imitazione, ma nel senso dell’interpretazione del personaggio e quindi l’atteggiamento generale, la postura, la gestualità e – come poteva mancare? – l’articolazione delle labbra, oltre alla mania di aggiustare e pettinare il proverbiale ciuffo giallo. L’attore si è preparato con un tour de force ascoltando, come racconta, registrazioni di Trump 24 ore su 24: “È diventata una routine tanto quanto respirare. Sia che mi lavassi i denti, preparassi la colazione o salissi in macchina, lo ascoltavo. Stavo davvero cercando di catturare il suo modo di parlare”. Si guardava anche i telegiornali di Trump con sua moglie Ivana, il modo in cui entrava nelle sale da ballo e nelle serate di gala e faceva quel particolare sguardo per dominare l’ambiente. È stato bravissimo, da elogio, impegnandosi con tutto il corpo e la recitazione, prova buonissima. Dal suo canto, Jeremy Strong compie un altro lavoro notevole, apprezzabilissimo, che, inquadrando molto bene il contenuto del film, afferma “È un film di mostri. È un film di Frankenstein [riferendosi a come l’avvocato istruisce e crea il personaggio Trump]. Si tratta della creazione di un mostro da parte di un altro mostro. La sua sfida alla realtà e la sua negazione della realtà, per me sono le componenti distintive di ciò che ha instillato nel suo allievo modello. È un’eredità di menzogne, bugie, negazionismo e l’aggressiva ricerca della vittoria come unica misura morale”.
Due attori eccellenti.

Chiara la tesi della realizzazione. L’interessato cosa dice? Giudica il film falso e privo di classe, un colpo basso, diffamatorio, politicamente disgustoso. Appunto: attaccare sempre, negare tutto e mai riconoscere la sconfitta. Ma tanto, chi lo ha scelto come faro della sua esistenza sociale rimarrà sempre convinto di far bene a votarlo. Amen.

La regia riesce ad esprimersi bene in quanto l’attenzione al film viene totalmente assorbita dallo stupore dei fatti e dalla bravura dei due attori, dal tono di biopic serrato, dall’atmosfera Anni ‘80 che avviluppa l’ambiente, dai colori della fotografia che pare di stare in un film dei tempi, le donne appariscenti per attrarre lo sguardo maschile, la polvere bianca che viaggia a tutta velocità, l’egemonia culturale dell’era reaganiana.

Riconoscimenti
Premio Oscar 2025
Candidatura per il miglior attore a Sebastian Stan
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Jeremy Strong
Golden Globe 2025
Candidatura per il miglior attore protagonista in un film drammatico a Sebastian Stan
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Jeremy Strong
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