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The Bikeriders (2023)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 2 feb
  • Tempo di lettura: 9 min

The Bikeriders

USA 2023 dramma 1h56’

 

Regia: Jeff Nichols

Soggetto: Danny Lyon (libro)

Sceneggiatura: Jeff Nichols

Fotografia: Adam Stone

Montaggio: Julie Monroe

Musiche: David Wingo

Scenografia: Chad Keith

Costumi: Erin Benach

 

Jodie Comer: Kathy

Austin Butler: Benny

Tom Hardy: Johnny

Michael Shannon: Zipco

Mike Faist: Danny Lyon

Norman Reedus: Funny Sonny

Boyd Holbrook: Cal

Damon Herriman: Brucie

Beau Knapp: Wahoo

Emory Cohen: Cockroach

Karl Glusman: Corky

Toby Wallace: il ragazzo

Paul Sparks: leader dei Gary Rogue

Happy Anderson: Big Jack

 

TRAMA: Anni ‘60, nel Midwest degli Stati Uniti. Un club motociclistico scala velocemente i ranghi di influenza nel circuito dei gruppi di bikers. Nel corso di un decennio, il gruppo si evolve da luogo di ritrovo per sconosciuti della zona con la passione per la moto a banda dagli scopi più sinistri, incompatibili con lo stile di vita del gruppo originale.

 

VOTO 7



È la storia vera del McCook Outlaws MC, club fondato dai dipendenti della Electro-Motive Company presso il bar Matilda’s sulla mitica Route 66 nel sobborgo sud-occidentale di Chicago di McCook, Illinois, nel 1935. Gli Outlaws, i fuorilegge della sotto e controcultura americana, in seguito si riformarono e parteciparono al primo grande raduno motociclistico del dopoguerra, tenutosi al Soldier Field di Chicago nel maggio 1946 e nel 1950 il club iniziò a reclutare membri da tutta l’area di Chicago e fu ribattezzato Chicago Outlaws MC. Ne raccontò le gesta, le abitudini, i componenti, a cominciare dal suo capo riconosciuto, il fotografo Danny Lyon, che raccolse le sue osservazioni e le testimonianze ricevute dagli altri, vivendo con loro, in un libro fotografico, che è il soggetto del film.



Il lavoro di Jeff Nichols (Midnight Special, Take Shelter, Mud, Loving - L’amore deve nascere libero) fotografa una stagione ribelle vissuta negli USA quando persone e dinamiche culturali erano pronte al cambiamento. Dopo un incontro casuale in un bar, la timida Kathy (Jodie Comer) rimane legata in maniera indissolubile a Benny (Austin Butler), l’ultimo arrivato in un gruppo di motociclisti del Midwest, i Vandals (questo il nome che il film dà ai motociclisti) guidati dall’enigmatico Johnny (Tom Hardy). Come il contesto che li circonda, il club inizia a evolversi, trasformandosi da un punto di raccolta di sbandati locali a un pericoloso ambiente fondato sulla violenza, forzando Benny a scegliere fra Kathy e i propri compagni. Il libro, e quindi il film, diventa uno spaccato di un pezzo di controcultura americana rimasto nell’immaginario collettivo e il regista non manca di citare – anche con un televisore che trasmette la pellicola in casa di Johnny, - l’immortale Il selvaggio con Marlon Brando, capostipite cinematografico di quel fenomeno, e l’iconico Easy Reader con un personaggio border line, come tutti gli altri, d’altronde, Funny Sonny (Norman Reedus), che pare una replica del Billy di Dennis Hopper.



Il movimento portò alla formazione di molti club di motociclisti, più o meno violenti, negli anni Cinquanta e Sessanta e fu un fenomeno che si rispecchia molto con quanto accade da sempre e periodicamente negli Stati Uniti di oggi. Sono passati sessant’anni, ma il senso di non appartenenza e di inadeguatezza, che sfocia nel supporto a figure e politiche populiste, è rimasto nel tessuto sociale del paese. Ecco allora che i ribelli, nel caso specifico i Vandals, amano costituirsi in gruppi che vivono assieme e compiono, numerosi, scorribande per le strade asfaltate a bordo delle loro potenti moto, spesso assemblate con le loro stesse mani. Il capo indiscusso è l’enigmatico Johnny, punto di riferimento assoluto che sa tenere in pugno l’irrequietezza di quei giovani che non hanno e non vogliono aver altro se non stare assieme e ai suoi ordini. Il quale non ama fastidi e né accetta richieste di ammissione di altri ragazzi sbandati, rifiutando vigorosamente l’afflusso, anche con duelli per stabilire la decisione. Come in un branco di animali selvaggi che combattono per stabilire il re della mandria. Proprio a causa dell’evoluzione che subì l’aggregazione, aumentarono ma si divisero in molteplici altri club, e il finale, altamente drammatico e malinconico, ne determinò la storia seguente.



Inutilmente Johnny chiede all’amico più fidato, legato da un rapporto di fratellanza cieca e solida, Benny, di sostituirlo quando si sente esausto, intuendo in lui l’unico ad avere le doti per tenere in pugno quei delinquenti, pena vederli sbandare ancor di più e non mantenere saldi i principi che li tengono uniti sotto il suo comando. Ma Benny, il più complesso di tutti, il più misterioso, taciturno e spesso isolato nei suoi pensieri, innamorato della sua Kathy, rifiuta deludendo il capo, anzi, dopo la tragedia finale, sparendo dalla circolazione e lasciando sola la sua donna. È proprio tramite Kathy che la narrazione, a lei affidata mentre rivela la storia all’intervistatore e poi scrittore del libro fotografico, va avanti per l’intera durata con dovizia di particolari e spiegazione dei comportamenti, facendoci conoscere da vicino i personaggi, in particolar modo quelli principali. Danny Lyon raccoglie con attenzione le parole tramite un registratore e gli avvenimenti in prima persona con la sua fedele macchina fotografica, non lasciandosi sfuggire i dialoghi squinternati e spiazzanti dei Vandals, le loro avventure, le bravate, le riunioni caratterizzate da sbornie senza limiti e scazzottate senza regole.



Ogni personaggio ha sempre una sigaretta in bocca, non li si vede mai mangiare ma solo bere e fumare, è vietato sgarrare e soprattutto far sospettare di abbandonare il club. Pena come minimo un pestaggio pesantissimo per far cambiare idea, o addirittura l’eliminazione fisica. Johnny ha pazienza a sopportare le esuberanze dei militanti ed è costretto a volte ad intervenire con la forza. Ma il pericolo maggiore, di cui non si rende conto in tempo, viene da quel ragazzo (Toby Wallace, sempre in ruoli da ribelle, con quella faccia…) che vuole a qualsiasi prezzo entrare nella comitiva anche a costo di abbandonare il suo gruppo, atteggiamento che Johnny non tollera assolutamente: quanto può essere affidabile un giovane che non dà importanza all’amicizia? Lui ne è un esempio, sempre pronto a difendere i suoi, costi quel che costi. Come quando, nella prima sconcertante sequenza, Benny, che è da solo a bere whisky con ghiaccio in un bar e quel giubbotto addosso – emblema del club, con la scritta Vandals – Chicago, che dà tanto fastidio agli avventori – viene prima stuzzicato e poi, quando tenta di difendersi gagliardamente, pestato e ridotto così male da non sapere se mai nella sua vita potrà ancora cavalcare la sua potente moto. Se con una vanga gli staccano quasi di netto un piede all’inizio del film, cosa mai potrà succedere in seguito? Solo una vendetta organizzata dal capo: una spedizione punitiva che non contempla prigionieri.



Invece Jeff Nicholson, che ama come il romanzo di formazione, il passaggio tra adulti mai cresciuti e giovanissimi che vogliono crescono in fretta, il fantasma di padri assenti (se rileggiamo le trame dei suoi titoli lo si intuisce facilmente), ci introduce lentamente nell’atmosfera della storia, così lentamente che si ha dapprima la sensazione di un film noioso dal ritmo troppo pigro: dialoghi, bivacchi con alcol e fumo, o peggio, donne facili, l’andare senza meta, il mettersi in moto e come un gregge scorrazzare rombanti. Poi il film alza il muso e comincia a volare: chi racconta, come detto, è Kathy, la ragazza e presto moglie di Benny, e con lei conosciamo una storia che si irrobustisce cammin facendo, le vicissitudini, la voglia di indipendenza dei giovani ribelli, i racconti e le biografie che si raccontano attorno al fuoco acceso negli spiazzi di campagna o nel locale del club, le bravate per punire i cittadini che si oppongono alla loro presenza.



Lei snocciola fatti e nomi con una caratteristica voce da oca giuliva e c’è chi si è lamentato del doppiaggio di Gemma Donati, non conoscendo il non facile lavoro dell’attrice: infatti, Jodie Comer ha rivelato che replicare l’accento particolare di Kathy è stata una delle sfide più difficili della sua carriera e ha dovuto lavorare con una coach di dialetti per avvicinarsi il più possibile alla voce reale di Kathy, basandosi su registrazioni audio delle conversazioni tra Danny Lyon. Un tentativo, quindi, di rappresentare fedelmente il modo di parlare della ragazza. Per questo va elogiata e va da sé che anche ciò fa parte dell’atmosfera che il regista ha voluto ricreare e delle prerogative che aveva in mente.



Non ci sono drammatiche scene di inseguimento, ma il pubblico ha la possibilità di comprendere cosa voglia dire muoversi in gruppo in moto, lo sguardo torvo delle sfide (“A cazzotti o col coltello?” chiede sempre Johnny), i giubbotti sopra i jeans che sono una divisa, la scritta sulle spalle come distintivo di riconoscimento assieme alla patch cucita che illustra il dito medio, l’amicizia che nonostante tutto lega l’uno agli altri. Legame che però cede facilmente quando si commette lo sgarro di annunciare l’addio, come al malcapitato Cockroach (Emory Cohen), che sognava solo di continuare a cavalcare una Harley-Davidson con la divisa di poliziotto. Inconcepibile, per loro! Il merito di Jeff Nichols è quello di avere “letto” la vicenda con intelligenza e senso artistico, fotografando con grande sensibilità l’aria di quegli anni e specialmente quella che si respira(va) nei club dei bikeriders, mettendo in primo piano personaggi dai tratti “romantici” ma diminuendo questa sensazione scegliendo la fotografia di Adam Stone a colori e non in bianco e nero come sarebbe stato attendibile, nel qual caso si sarebbe avvicinato sì al mito di Brando ma lo ha evitato per raccontare storie di più di mezzo secolo fa che devono rassomigliare a quelle di oggi, intenzionalmente. Di fatto, e non sembri strano, il film non parla di moto. Ci sono, invece, persone che non si sentono di appartenere alla società, che sono ai margini e devono uscirne, facendolo in sella e assieme. Se si riflette, l’arte, i film, la moda, tutte le cose belle di questo mondo succedono molto spesso “fuori” e la società vuole assorbirle. Loro non vogliono appartenere a nulla e a nessuno, figuriamoci essere di moda. Per questi motivi il film risulta solido, tosto, storico come antitesi del temine antistorico, mai veramente violento, se non in piccoli frangenti, ma tanto efficace, che dopo quell’inizio lento prende uno slancio fino a diventare appassionante e coinvolgente.



Il finale è drammatico e malinconico, sconvolgente e inatteso: la Storia segue il suo corso e, come è rilevabile in una facile ricerca, i club si espansero a macchia d’olio, si evolvettero in qualcosa di molto differente da come voleva il granitico Johnny e la violenza esplose, rendendo di fatto i ribelli dei veri criminali. Fu così che il romanticismo fu stravolto e si perse nella delinquenza fine a se stessa. “L’argomento non sono le moto ma le persone che si sentono ai margini della società e quindi devono uscirne. Ed è proprio ai margini che succedono le cose più fiche” dice il regista. Il quadro, così, è nettamente chiaro.



Se Jeff Nichols aggiunge un’altra piccola perla al suo notevole carnet, Austin Butler conferma tutto il buono che si era notato nel suo ottimo Elvis: la sua voce profonda, il modo di muoversi, di guardare sottecchi, i silenzi e le pause ben dosate, la lampante bellezza che lo gratifica, sono tutte doti che qui ribadisce ed esalta. Il suo personaggio è fantastico, il più bello e affascinante del parterre e lui lo intuisce al meglio, pur non avendo, al contrario degli altri, materiale su cui basarsi, perché il photobook dell’autore del soggetto non contiene sue immagini fatta eccezione per una piccola foto in cui lo si nota sullo sfondo e in disparte. In fondo, come era il suo carattere schivo e solitario. Il capo è Tom Hardy (una bazzecola per lui interpretare ruoli come questo) ma volendo o no il film gira intorno a Benny e, di riflesso, al bel giovanotto: a lui si deve l’ultima e meravigliosa inquadratura quando, accenna, appena appena, ad un lieve sorriso. Come dire, sono qui, torniamo a vivere, con la soddisfazione di Kathy. Senz’altro buona, al proposito, la prestazione di Jodie Comer che ha il compito di mostrare la maturazione nel tempo anche del suo personaggio, relatrice della Storia. Gli altri attori, tutti impostati alla durezza e alla durezza caratteriale, sono adeguati, ineccepibili. Su tutti questi spicca Michael Shannon. Non è molto in scena ma lascia il segno con il suo Zipco, forse il più sbarellato di tutti, pieno di fatterelli da raccontare e sempre ubriaco, come se fosse l’immagine simbolo storico e sociale del fenomeno. Norman Reedus fa quello che più gli si addice e tra gli altri spiccano Damon Herriman e Toby Wallace.



Le musiche di David Wingo servono ad accompagnare gli intervalli dei brani rock che hanno fatto storia in quegli anni, e quindi via con The Animals, The Shangri-Las, Jeff Barry and Ellie Greenwich, Muddy Waters, Cream, Van Morrison, The Stooges, Johnny Adams The Fleetwoods e altri ben noti. Quindi musica per le orecchie e per l’atmosfera esaltante di molti momenti di un buonissimo film di un autore dalla linea artistica chiara.



 
 
 

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