The Dead Don’t Hurt - I morti non soffrono
(The Dead Don’t Hurt) USA/Messico/UK 2023 western drammatico 2h9’
Regia: Viggo Mortensen
Sceneggiatura: Viggo Mortensen
Fotografia: Marcel Zyskind
Montaggio: Peder Pedersen
Musiche: Viggo Mortensen
Scenografia: Carol Spier, Jason Clarke
Costumi: Anne Dixon
Vicky Krieps: Vivienne Le Coudy
Viggo Mortensen: Holger Olsen
Solly McLeod: Weston Jeffries
Garret Dillahunt: Alfred Jeffries
Colin Morgan: Lewis Cartwright
Ray McKinnon: giudice Blagden
Luke Reilly: dottor Reilly
Atlas Green: Vincent
Danny Huston: sindaco Rudolph Schiller
W. Earl Brown: Alan Kendall
John Getz: reverendo Simpson
TRAMA: Ambientato negli anni Sessanta dell’Ottocento, la franco-canadese Vivienne Le Coudy, fieramente indipendente, intraprende una relazione con l’immigrato danese Holger Olsen.
Voto 7
Dopo l’esordio da regista con un forte racconto drammatico, Falling – Storia di un padre, già tanto significativa dal titolo per un regolamento di conti tra padre e figlio, Viggo Mortensen sceglie un impegnativo western, lontano dal modello classico americano ma molto vicino alla visione del pistolero-predicatore da quel nome pallido che si chiama Clint Eastwood: incedere lento del personaggio e della narrazione, che ha indotto, secondo me molto erroneamente, a considerarlo pesante e noioso, quando invece è proprio con questo particolare che l’artista riesce a dipingere un quadro affascinante e riflessivo, rispecchiando il carattere del suo uomo. Ancora una volta, si impegna completamente nel progetto, nei panni di interprete, regista, sceneggiatore, produttore e anche, perdinci, l’autore della colonna sonora, proprio come la volta precedente. Dimostrando come abbia idee chiare sul complesso dell’intera operazione, rispecchiando decisamente quello che ha in mente.
Un western, quindi, ma così definibile per semplicità, per comodità, perché, anzi, quello che forma l’ossatura principale della trama è un’intensa storia d’amore tra lui, che interpreta l’immigrato canadese (non si dimentichi che, newyorkese, il suo albero genealogico, come ho spiegato nel recensire l’altro suo film, vede un padre danese e nonni materni canadesi e norvegesi, un vero cittadino del mondo) Holger Olsen, ottimo falegname sessantenne e pronto a qualsiasi lavoro, che un giorno, vicino alla bancarella del pesce del mercato di San Francisco dove è approdato (“Per vedere la fine del mondo”), incontra una fioraia di nome Vivienne Le Coudy (Vicky Krieps), dal portamento di fiera femminista. Anche questa definizione è limitativa, in quanto la giovane è di forte carattere, indipendente, pronta a reagire ai soprusi, mai impaurita dalla violenza maschile di quei tempi. Un nome francese per una donna di origine franco-canadese del Québec, anche lei quindi immigrata, cresciuta a pane e Giovanna d’Arco, di cui la mamma, rimasta vedova dopo l’uccisione del marito ad opera degli inglesi, le leggeva continuamente e la allevava senza farle dimenticare la sua lingua madre. Lei si innamora a primo sguardo, lui è incantato dalla sua dolcezza mista all’intraprendenza e alla indipendenza innata, fino al punto di scivolare quella mattina stessa nel letto di lei e al suo tavolo da pranzo. Da lì in poi, è una storia d’amore vero tra due persone volitive e pazienti, che, con gran perplessità di lei, vanno a vivere in una casetta sperduta in un bosco del Nevada, limitrofo alla California.
Non è un vero western anche se ci siamo e succedono tutte le tipiche cose del genere: è un film di un amore, nel West, un film romantico, diciamo pure sentimentale, tale è la consistenza del sentimento che si prolunga e sopravvive forte anche quando Olsen, come ama chiamarlo la donna, accetta l’offerta dell’esercito dell’Unione - non tanto per i 100 dollari d’argento come ingaggio, ma quanto per la causa, ritenuta giusta da lui, di combattere contro l’idea schiavista dei sudisti – andando in prima istanza verso il confine del Messico. Un film d’amore, quindi, che non dimentica gli stilemi del classico western: il saloon in comproprietà tra un anziano rassegnato e intimorito e il latifondista Alfred Jeffries (un irriconoscibile Garret Dillahunt, abituati come siamo a vederlo in personaggi gentili), losco figuro sempre in combutta con uno identico, il sindaco Rudolph Schiller (Danny Huston), entrambi affaristi senza scrupoli; il pianista messicano che tenta inutilmente di allietare con musica troppo colta gli avventori ubriachi; l’immancabile villain, il figlio di Jeffries, Weston (Solly McLeod) prepotente, manesco, psicopatico, che vediamo non solo uccidere inopinatamente dentro e fuori dal saloon, scappar via e far incolpare (su disegno del padre e del compare) lo scemo del villaggio, che verrà impiccato, ma che soprattutto violerà Vivienne, rimasta sola dopo la partenza di Olsen.
I personaggi tipici del western ci sono tutti, magari anche stereotipizzati, ma dato che siamo nel 1860, in quel dell’America alla vigilia della Guerra Civile, durata appunto quanto l’assenza del protagonista, non potevano mancare per descrivere la dura e inquieta vita di quel posto in quegli anni, ma il cuore del film è la relazione convinta dei due personaggi centrali, che sanno sempre superare le difficoltà via via incontrate, come l’accettazione di quella casetta lontano da tutti, il duro lavoro da affrontare, la necessità di Vivienne di chiedere di lavorare come cameriera nel saloon, che, a sua volta, vuol dire due cose. Prima di tutto la sua fierezza e il suo coraggio di andare a prestare lavoro nella tana del lupo, senza timori, ma anche di aumentare il rischio di essere sotto lo sguardo famelico dell’arrogante Weston, capace di tutto. Questo, nonostante il parere contrario di Olsen, alla pari del disappunto della donna per l’adesione all’arruolamento di lui. Superano ogni ostacolo, ogni contrarietà, perché si vogliono bene veramente e lo si nota nelle tante scene di baci e abbracci tra i due malgrado la differenza di età. Innamorati come due giovani.
Purtroppo, come si rispetta nei melodrammi, che in fondo è la definizione più giusta del bel film di Mortensen, ad un certo punto la vita viene sconvolta. Più volte: lo stupro subito da Vivienne, il ritrovarsi incinta, per giunta senza dare notizia al suo uomo, ed infine la gravissima malattia che il violento Weston le ha trasmesso: la sifilide. In questo ambiente ostile e corrotto è difficile stare in santa pace, pur se isolata nel bosco, è difficile vivere da sola anche avendo personalità e coraggio. È difficile spiegare al compagno, finalmente tornato dalla guerra, chi è quel bambino di quattro anni, che lei ha cresciuto sempre nel mito di Giovanna d’Arco. Quale sarà ora la reazione di Olsen?
Qui il film - che ha già dato l’idea di un femminismo ante litteram e di una figura femminile dalle caratteristiche non comuni, provocatrice per legittima indipendenza e intraprendenza - si avvicina per concezione al western crepuscolare di Clint: prima il cavaliere solitario e taciturno che si fa gli affari suoi, che non vuole e non dà fastidi, dalla grande voglia di lavorare, che è meglio se non lo fate arrabbiare, che avanza nel bosco a cavallo del suo destriero; poi, più che la giustizia (comunque compiuta senza cercarla), la consapevolezza dell’inutilità della vendetta specialmente a beneficio della salvezza del piccolo Vincent, a cui spiega, mentre il bimbo accarezza un uccello appena abbattuto per la cena, che il volatile ormai non prova più dolore, perché “I morti non soffrono”. Come la sua Vivienne. Dopo giorni di viaggio, il bambino, tenuto sempre in groppa e difeso da tutti e tutto, viene condotto con amorevole protezione, comunque paterna, in riva all’oceano, là dove “È la fine di questo mondo”, dalle onde minacciose, come quel mondo che hanno lasciato alle spalle. L’Olsen di Viggo Mortensen è malinconico, rassegnato, in ogni caso pronto a reagire solo per difesa, è un uomo che cerca un rifugio dalla violenza. E dire che l’aveva trovata in quella donna tanto innamorata, era l’oasi di una vita di cui non abbiamo mai saputo nulla.
Dal ritmo più che compassato e dalla recitazione lenta, contrapposta alle malefatte rapide e criminali dei personaggi del villaggio, da cui vuole tenersi lontano, ma accettando la stella da sceriffo dal sindaco affarista, il regista-attore fa scorrere il film con molti salti all’indietro perché la prima sequenza è quella del viaggio di padre e “figlio” sulle montagne del Nevada verso l’oceano, quindi a fatti già avvenuti, rallentando la narrazione in non poche occasioni, con sequenze quasi immobili. Costruzione che da taluni verrà biasimata, da tanti altri, spero, no, perché ciò è innato nella recitazione naturale di Viggo Mortensen, come abbiamo già potuto notare nei film di Cronenberg (Crimes of the Future, A Dangerous Method, La promessa dell’assassino, A History of Violence) ma anche vista in Appaloosa del suo amico Ed Harris, film ancora di quel West guasto e da riparare. Questo è Mortensen, questo è il suo modo di concepire cinema.
Va da sé che il protagonista maschile è solo la metà del cielo del film, anzi, forse anche meno: la Vivienne di Vicky Krieps è un personaggio bellissimo e dominante, molto adatto ad un’attrice poliedrica come lei, lussemburghese abitante a Berlino, che nei panni della combattiva protofemminista pronuncia un accento influenzato dalla ascendenza francese, mentre lui riporta quella danese di provenienza. Viggo le regala primi piani che sostiene benissimo e con cui riesce a trasmettere molti dei suoi pensieri affettuosi verso il suo uomo e verso Vincent, che ha accolto comunque nella vita come un figlio (come è giusto che sia ma non in maniera scontata) e atteggiamenti orgogliosi verso il resto del mondo. Donna che esterna con sguardi dignitosi e senza paura pure il disprezzo verso chi ha abusato violentemente di lei, mai abbassando gli occhi, a mo’ di sfida. Una eccellente interpretazione che segna l’intero film.
L’idea di cinema di Viggo Mortensen è chiara, è basata su un’arte che conosce bene dopo tanti ruoli importanti, tramite cui ha tratto lezione dai tanti maestri che lo hanno diretto. Il suo sguardo magico dagli occhi chiari guarda dritto per esprimere con passo calmo e sicuro gli intenti dei suoi personaggi. Non è, alla pari del precedente, un film memorabile, ma certamente di pregevole fattura e stabilisce due step di una carriera che ha qualcosa di buono da dire e che continuerà sicuramente con risultati interessanti. Lo aspetteremo sempre con curiosità e stima, probabile in altri drammi, che, a quanto pare, sono il suo territorio preferito. Dirige un’opera crepuscolare che parla di persone ferite, devastate, che parla di rabbia e di disperazione. Una storia di violenza, e la storia della forza, del coraggio, della dignità e della vulnerabilità di un grande personaggio femminile.
Molto bella la fotografia del danese (pure lui) Marcel Zyskind, che accentua i colori delle foreste e delle montagne, specialmente quando illuminati dal sole calante, come a confermare ancora una volta il tramonto della terra promessa. Al resto ci pensano i due bravi scenografi, Carol Spier e Jason Clarke, candidati ad un premio in Canada. Non sono servite (e forse non sono ancora nelle sue pretese artistiche) grandi panoramiche o importanti movimenti di macchina. A lui interessa principalmente parlarci dei personaggi e della loro vita intima, stando vicino a loro e dando il tempo giusto per esprimersi e congiungersi.
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