The Girl with the Needle (2024)
- michemar
- 27 gen
- Tempo di lettura: 7 min

The Girl with the Needle
(Pigen med nålen) Danimarca/Polonia/Svezia 2024 dramma storico 2h3’
Regia: Magnus von Horn
Sceneggiatura: Magnus von Horn, Line Langebek Knudsen
Fotografia: Michał Dymek
Montaggio: Agnieszka Glińska
Musiche: Frederikke Hoffmeier
Scenografia: Jagna Dobesz
Costumi: Małgorzata Fudala, Zuzanna Kot
Vic Carmen Sonne: Karoline
Trine Dyrholm: Dagmar
Besir Zeciri: Peter
Joachim Fjelstrup: Jørgen
Tessa Hoder: Frida
Ava Knox Martin: Erena
Ari Alexander: Svendsen
TRAMA: Nella Copenaghen del periodo appena precedente alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la giovane operaia Karoline viene abbandonata dall’uomo che l’ha messa incinta e lotta per non soccombere alla povertà. All’apice delle sue difficoltà, la ragazza incontra Dagmar, una donna che gestisce un’agenzia di adozione clandestina con sede in un negozio di dolciumi e che aiuta le madri indigenti a trovare case affidatarie per i figli di cui non riuscirebbero a prendersi cura. Per sfuggire alla fame, Karoline accetta il ruolo di balia.
VOTO 7,5

Karoline (Vic Carmen Sonne) è una giovane operaia nella Copenaghen del primo dopoguerra che, rimasta incinta, viene licenziata e si trova sola al mondo. È una donna davvero sfortunata, come se il destino l’abbia presa di mira con le più disgraziate vicende che possono accadere ad una sola persona. Suo marito Peter, partito in guerra, non ha dato più notizie e dal silenzio deduce che sia disperso o morto. Lo stipendio che riscuote nella fabbrica tessile dove presta lavoro come sarta è sicuramente così basso che non riesce neanche a pagare l’affitto del piccolo appartamento in cui vive e quindi viene sfrattata e costretta a trasferirsi in una squallida stanza, una sorta di pollaio nel sottotetto nel quale ci piove dentro. Ma non si abbatte e lotta con tutta se stessa per sopravvivere. Per giunta, non è in grado di ottenere il risarcimento di vedova proprio perché suo marito non è stato ufficialmente dichiarato morto. L’unica persona con cui si confida e trova conforto è l’amica Frida, ma inaspettatamente, come un arcobaleno che illumina e colora il cielo dopo la pioggia, in occasione della richiesta del sussidio, conosce il direttore dello stabilimento che la prende a cuore, anzi le dedica tanta attenzione che ne nasce una vera relazione. Lui è Jørgen (Joachim Fjelstrup) e succede una cosa che in primo momento parrebbe rappresentare una svolta: rimane incinta e lui progetta di sposarla. Ma quando Karoline fa visita alla madre, una ricca baronessa titolare della fabbrica, che, dopo il controllo medico che ha organizzato, prima di umiliare il figlio e proibirgli di sposarla, la caccia chiudendo la storia e lasciando la donna nel panico maggiore, anche perché Jørgen ha avuto l’ordine di licenziarla.
Potrebbe mai andare peggio di così? Impossibile. Una ulteriore novità, non certo positiva del tutto, è che si riaffaccia nella vita della donna il marito Peter che è tornato dal fronte e la sorpresa non è piacevole: lui indossa una maschera per nascondere il suo volto gravemente mutilato, una malformazione così grave che viene assunto in un circo per essere presentato come un mostro. Karoline è disgustata e lo tratta freddamente. L’uomo è assediato da episodi psicotici mentre Karoline fatica a trovare lavoro. Tenta perfino di abortire da sola con un ferro da maglia ma l’ago del titolo non fa altro che causarle un principio di emorragia, salvata nel momento peggiore del tentativo e della sua vita da una donna matura, Dagmar (Trine Dyrholm), la quale è fautrice di un’attività benefica, quella di accogliere neonati di madri che se ne vogliono liberare, per affidarli a famiglie in cerca di adozioni poco legali, mascherando questo mestiere con un negozio di dolciumi. Così farà anche Karoline, decidendo quindi di continuare la gravidanza e di partorire, donando il bimbo a chi lo vorrà. In cambio, invece di pagare come fanne le altre puerpere, lavorerà nel negozio paravento e allatterà i bambini che arriveranno in attesa di essere venduti. Non tutto andrà liscio per l’attività illecita, perché quella donna si rivela molto peggiore delle apparenze.
Perché mi sono così dilungato nella trama? Perché tutta questa lunga parte non è il cuore del film, ne è solo una specie di introduzione dopo il quale il regista Magnus von Horn vira decisamente verso una sorta di horror, dai chiari risvolti criminali. Il bianco e nero, a tratti lugubre come la storia e buio come i tempi che questi personaggi stanno vivendo, tra miseria e difficoltà dovute alla guerra e alla mancanza degli uomini al fronte, preannuncia e accompagna i netti chiaroscuri sia della trama - ispirata a fatti realmente avvenuti tra il 1913 e il 1920 ad opera di Dagmar Johanne Amalie Overby, nei quartieri periferici di Copenaghen – sia del traffico criminale dell’agenzia segreta. Una fotografia che risulta perfettamente adeguata a questo horror anche fortemente psicologico raccontato con precisione con l’uso della camera da presa da parte di un regista aduso a narrazioni di soggetti con protagonisti border line, abbandonati al loro destino, individui isolati dalla comunità per le loro attività o per circostanze ambientali. Così era successo con l’esordio nel lungo in Efterskalv (The Here After, titolo internazionale) del 2015 e con l’interessante Sweat (2020), tutti ambientati in Polonia dove lui, svedese di Göteborg, è praticamente di casa, almeno artisticamente, essendosi laureato alla Scuola nazionale di cinema, televisione e teatro Leon Schiller di Łódź, nazione dove, purtroppo, è stato vittima di un pestaggio, facendolo avvicinare alla tematica della violenza, che sviluppa nella sua ricerca artistica. Magnus von Horn descrive il film come una favola per adulti, motivato “non solo a fare un pezzo di genere ma a flirtare con il genere, un ottimo obiettivo per guardare la storia, per me, per il direttore della fotografia, gli scenografi e i costumi.”
Questa sua predisposizione si traduce in un’opera affascinante in cui sa descrivere in modo magnifico sia la personalità di Karoline che quella della terribile Dagmar. La protagonista è spesso fotografata con bellissimi primi piani che mostrano le tante sensazioni di gioia e di abbattimento della ragazza, provocate dai tanti e continui avvenimenti della sua vita tribolata, una incessante sequela di fatti positivi e più che altro negativi, come spesso succede alla povera gente, passando dalla estrema povertà alla pia illusione di andare a vivere in una casa patrizia con tanto di cameriera, dal licenziamento alla necessità dell’aborto, dall’accoglienza da parte di una donna che pareva una sistemazione decente, pur se non ideale, all’orrore peggiore che potesse immaginare. Tutto contribuisce a rendere questa storia ancor più cupa, narrata come uno squarcio drammatico della vita popolare di un luogo poverissimo in un periodo tragico per l’Europa, ma che assume le sembianze del thriller orrorifico.
I meriti sono tanti e sono sparsi tra i diversi aspetti e non ultimo per i cast tecnico e artistico. Prima di tutto va riconosciuto a Magnus von Horn di aver girato con stile accurato e intransigente, con una cura che pare opera dei grandi registi d’una volta, come una fiaba nera che lascia affascinati e sbalorditi: un autore che è cresciuto di film in film e che sono certo ci riserverà altre belle sorprese; la fotografia, più volte accennata, di Michal Dymek (Eo, A Real Pain, Sweat) è strabiliante e ha il potere di incantare nella visione come un filmato d’epoca, solo (ovviamente) molto più nitida; il montaggio di Agnieszka Glińska (Eo, Lamb) è preciso, un collage ricamato che fa scorrere le immagini; musica adattissima e scenografia e costumi curatissimi, difficile fare meglio; la sceneggiatura scritta dal regista e da Line Langebek Knudsen cattura l’attenzione del pubblico e riesce a mantenere interesse dall’inizio alla fine, illustrando bene i caratteri dei personaggi. Per quanto riguarda le interpretazioni, Trine Dyrholm, dall’alto della sua decennale esperienza, ricama la spietatezza della donna senza umanità, capace di tutto, imbruttita e invecchiata, senza paura di esibirsi, seppur per un solo attimo, nella piena nudità. Il gran lavoro che fornisce Vic Carmen Sonne meriterebbe un capitolo a parte, anche se da noi è quasi sconosciuta: nata e cresciuta nella capitale danese, di ascendenza polacca, persiana e russa, è un’attrice che si è affacciata nel panorama internazionale con l’apprezzatissimo Godland - Nella terra di Dio scelto per rappresentare l’Islanda nella categoria del miglior film internazionale ai premi Oscar 2024, ma con questo film ascende a livello di grande interprete. Dalla espressività notevolissima, domina l’intero film dal primo all’ultimo minuto, comunicando ogni intima emozione, positiva o negativa, con una facilità impressionante. Basterebbe osservare solo lei per capire come e dove va la trama, è la cartina tornasole delle sensazioni che attraversano lo schermo e che lei trasmette con facilità e con enorme duttilità allo spettatore, anche con il minimo spostamento delle folte sopracciglia. E giustamente il regista le dedica la massima attenzione, mettendola sempre in risalto nell’obiettivo. Un’attrice coi fiocchi, non vedo l’ora di rivederla all’opera.
Le tematiche centrali, l’ambientazione e il tono tragico vengono introdotte subito con le inquietanti prime immagini, ottimamente montate, e il film prosegue con un’atmosfera che non tarda a ricordare altri film come Oliver Twist di David Lean o il meraviglioso e commovente The Elephant Man di David Lynch nello stile e nella composizione. Il regista contribuisce fortemente ad esaltare l’evidente studio della povertà, del collasso dello stato e della divisione di classe che a volte si rivela quasi schiacciante nella sua desolazione, mentre si osservano i camini di Copenaghen che emettono fumo e la disperazione e l’oppressione psicologica infestano le sue strade strette, tortuose e acciottolate, in saliscendi che la povera Karoline percorre con il viso triste e pensieroso, quasi disperato. La conclusione è degna di questi incipit, inevitabile, dolorosa, sconcertante. Al centro della folla assiepata in tribunale c’è sempre lei, con lo sguardo fisso che rivolge dritto, consapevole che, in fondo, l’unica persona su cui potrà contare è ancora e solo il marito. Oltre a Erena, la figlia di Dagmar che ha deciso di adottare. Anche questa ragazzina ha bisogno di essere umanizzata.
Presentato in concorso al Festival di Cannes del 2024, tra i vari:
Riconoscimenti
Premio Oscar
Candidatura per il miglior film internazionale
Golden Globe 2025
Candidatura per il miglior film straniero
EFA 2024
Miglior scenografia
Miglior colonna sonora
Candidatura per la miglior attrice a Trine Dyrholm
Candidatura per la miglior attrice a Vic Carmen Sonne
Candidatura per la miglior sceneggiatura
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