The Last Spark of Hope
(W nich cala nadzieja) Polonia 2023 sci-fi 1h28’
Regia: Piotr Biedron
Sceneggiatura: Piotr Biedron
Fotografia: Tomasz Wójcik
Montaggio: Marceli Majer
Musiche: Lukasz Pieprzyk
Scenografia: Marek Zawierucha
Costumi: Dzvinka Kukul, Magdalena Tarka
Magdalena Wieczorek: Ewa
Jacek Beler: robot Arthur (voce)
TRAMA: Dopo la fine delle Guerre Climatiche, probabilmente è rimasta una sola persona sulla Terra. Vive con un robot di nome Arthur. Un giorno, Ewa entra in conflitto con il robot e inizia una battaglia mortale per la sopravvivenza.
Voto 7,5
Potrebbe essere basato su una storia vera. Così dice la didascalia e noi, tutti, negazionisti compresi, sappiamo benissimo che potrebbe esserlo. Che potrà avvenire, se non è già iniziata.
La voce di Ewa introduce con asciuttezza, ma anche con una evidente punta di sarcasmo, lo spettatore nell’ambiente ostile in cui ora ormai vive, se così si può dire: ci dice con estrema chiarezza a che punto è arrivata la stolta umanità e contemporaneamente il pessimo livello delle condizioni della Terra, che sappiamo bene sa sopravvivere comunque, al contrario di noi abitanti. Ciò che fa impressione è che le parole che pronuncia la ragazza sembrano uscite dalla bocca dei giovani agguerriti ambientalisti che da mesi manifestano a voce alta per le strade di tutto il mondo, mentre l’opinione pubblica fa fatica a prestare attenzione, al contrario dei politici che invece si tappano le orecchie e li deridono e li accusano di estremismo catastrofista.
Cosa dice Ewa? Ecco:
“Abbiamo rovinato il pianeta su nostra precisa richiesta. Infatti, era prevedibile. Eravamo come il Titanic, con la differenza che noi sapevamo che stavamo andando a schiantarci contro l'iceberg, ma nessuno ha voluto rallentare. Ci divertivamo tanto sulla nostra terra! L’orchestra continuava a suonare e nessuno voleva che quella bella festa finisse. Le temperature sono salite rapidamente, le calotte glaciali si sono sciolte inondando i continenti. Il permafrost non ha sprigionato soltanto metano ma anche virus e batteri sconosciuti, dormienti da milioni di anni. Attendevamo pazienti di ucciderci. Era troppo tardi per salvare la terra. Con le ultime risorse avevano costruito razzi detti “Arche” che portavano i sopravvissuti nello spazio. I politici e i potenti del mondo si erano imbarcati per primi. Non avevano una vera destinazione da raggiungere, dopotutto non esiste una terra di ricambio e saranno sicuramente morti per le radiazioni cosmiche oppure in una guerra per accaparrarsi le ultime provviste. Esaurendosi, la terra si era sbarazzata del suo peggior nemico: noi esseri umani. Nel frattempo, i superstiti si erano rifugiati in luoghi sicuri, in case improvvisate in cima alle montagne, alte abbastanza per sovrastare le zone contaminate. Ignoro se ci siano ancora vivi, se la mia famiglia è viva. Ecco perché sono qui isolata ma non sola.”
Terrificante come introduzione, pare, più che un film di fantascienza post-apocalittica, un horror. Eppure, quella situazione potrebbe diventare realtà e la ragazza, unico personaggio umano del film, ci illustra una situazione catastrofica, dopo l’apocalisse che l’Uomo stesso ha provocato ballando con l’orchestra che suonava mentre la Terra peggiorava. Ed erano consapevoli, dice lei. E ripete una frase che sentiamo sempre nei cortei dei giovani: non c’è un pianeta B. E, peggio ancora, il pianeta A si è liberato del suo peggior nemico. Persino sprecato notare come i primi a scappare nello spazio, ma, a quanto pare, inutilmente, siano stati proprio i politici e gli uomini più ricchi e potenti. Come succede in ogni crisi, gli ultimi sono i primi ad essere sacrificati.
Ewa vive su una sorta di piccolo altopiano in cima ad un’altura su cui ha un grande capannone (da lontano pare il tendone di un circo) con riserve di acqua, piante coltivate e un tetto di pannelli solari da cui ricava energia elettrica in modo pulito. È figlia un ufficiale militare che evidentemente le ha insegnato tanto in fatto di informatica e tecnicismi, fino al punto che sa essere autonoma a gestire i macchinari e il computer. Non è sola, chissà se per fortuna o per disgrazia. Di certo ha una compagnia che la difende. Infatti, il padre le ha lasciato un robot, uno di tipo militare, l’R-WAR 5 di terza generazione che si chiama Arthur. Alquanto malconcio lo vede lei, sicuramente a causa della guerra in cui è stato impiegato. È stato lasciato lì programmato per proteggere la ragazza, per evitare che qualcuno, malintenzionato, si avvicini con cattivi propositi: sorveglia in modo implacabile un cerchio immaginario intorno al rifugio e chi vuole attraversarlo deve comunicare una password che scade ogni tre mesi. Sono tutte memorizzate nel robot e sono elencate in una rubrica appesa sul frigorifero. Persino Ewa - ogni volta che si reca nella città morta e vuota, per procurarsi dagli scaffali abbandonati la merce che le serve, munita di bombola di ossigeno e protetta da una tuta - deve riferire la parola chiave alla sentinella al momento del rientro. Altrimenti non potrebbe neanche lei rientrare alla base, rischiando una raffica dell’arma inglobata nelle braccia di Arthur.
Il tempo trascorre monotono e pigro, ma un giorno succede il disastro imprevisto: Ewa, rientrando stanca dalla centrale elettrica sottostante per un controllo, mentre tutt’intorno è un cimitero di cemento e ciminiere di centrali nucleari abbandonate sotto la cappa di fumi e inquinamento, si è dimenticata di fissare nella mente la password necessaria essendo scaduti i tre mesi di validità della precedente. Il robot la riconosce benissimo, sa chi è, ma non ha un cervello, solo, come sappiamo, una memoria informatica e obbedisce solo al software installato in quella. Sa esattamente qual è il suo compito: bloccare chiunque voglia avvicinarsi senza pronunciare la parola magica valida. E la ragazza non l’ha imparata. Ewa per ora resta fuori, ha sete e fame, è stanca, dorme all’addiaccio. È la sete la minaccia maggiore ma Arthur non sente ragioni. In quei giorni e in quelli precedenti, la sceneggiatura del regista Piotr Biedron tocca argomenti non solo ecologici, ovvi data la trama, ma anche etici: i due ragionano sul perché e sul chi potrebbe avvicinarsi chiedendo ristori, aiuto, cibo. Erano state tantissime le migrazioni dei popoli che avevano sofferto di più per la desertificazione della Terra, gente senza cibo e acqua che era stata respinta da ogni confine. Sembra di rivivere le scene che vediamo da anni ai nostri confini.
Sono attuali i problemi del benessere del nostro ambiente ma il film ha anche uno scopo umanitario: chi si può definire migrante? Fra di loro si possono fare distinzioni per motivi che vanno da quelli di guerra a quelli di fame? di povertà o di persecuzione? Davvero dovremmo perdere tempo (oh, quanto se ne discute oggi tra i nostri politici!) a discutere se un barcone di immigrati trasporta persone che cercano un futuro migliore per sé e per i familiari oppure che scappano da dittature o guerre civili? È proprio questo che si chiede il regista: Quando c’è carenza di cibo e acqua, le persone sono capaci delle azioni peggiori. Il film in realtà è ambientato dopo la convenzionale Grande Guerra Climatica. Il film tocca la guerra fratricida per l'acqua e la migrazione di milioni di persone in fuga dal caldo e dalla fame. Questo è un punto di partenza per promuovere molti valori universali, ad esempio il problema dei rifugiati e i loro diritti. Per ciò che invece riguarda la trama in senso stretto, è tragicomico osservare il comportamento del robot che non fa altro che obbedire alle importazioni che gli sono state memorizzate. Per cui viene spontaneo immedesimarsi nel personaggio del robot, dentro al quale lo spettatore dovrebbe porsi la domanda: perché le persone hanno distrutto il loro pianeta, la Casa in cui vivevano? Eh!
Se questi sono i temi centrali del bel film dell’esordiente Piotr Biedron - che si era fatto conoscere come attore nel sorprendente The Hater (sempre produzione interessante del cinema polacco) - il regista non trascura l’aspetto thriller della trama allorquando, appunto, Ewa si vede bloccata fuori dal rifugio non conoscendo la password per rientrarci. Una fase lenta e lunga, estenuante e logorante, che si prolunga sino al finale inevitabile che ci viene a dimostrare quanto territorio insicuro, che si ritorce contro l’uomo, viene lasciato alla “macchina” e che diventa un ostacolo insormontabile. Non è della classica ribellione dei robot (più volte raccontata al cinema) che questo film ci narra, (l’Odissea di Kubrick è stata illuminante, al proposito, ma anche il bel Il mondo dei robot di Michael Crichton), bensì del perverso meccanismo che scatta quando un congegno elettronico è stato concepito e costruito per una difesa che diventa pericolo e ostacolo verso l’uomo stesso. Intelligenza umana contro intelligenza artificiale; disastro globale contro un disastro locale. E così il film, partito come monito e condanna alla stupidità umana, diventa un dramma di sopravvivenza individuale, aggravata da una grave solitudine difficile da sopportare. Curiosi e simpatici sono infatti i dialoghi stranianti tra la giovane e il robot, con considerazioni di varia natura e soprattutto con indovinelli dove è facile immaginare chi vinca. Ma proprio la volta in cui è Ewa che sembra prevalere perché l’aggeggio non sa trovare la soluzione diventerà la sorpresa finale, aumentando il rammarico di non averci pensato prima. E lei non se ne renderà neanche conto.
Ewa è quella del titolo, l’ultima stilla di speranza per il futuro, ma in questo terribile ambiente e in queste condizioni ogni distrazione si paga carissimo.
Dice Piotr Biedron: “L'idea del nostro film è nata tre o quattro anni fa. Sono un fan della fantascienza. Ci sono cresciuto, amo Star Wars e il post-apocalittico. Ci sono stati diversi fattori che hanno creato la sceneggiatura di questo film. L'ecologia è nel mio DNA. Volevo attirare l'attenzione dello spettatore, mostrare alcuni argomenti che potrebbero sorgere in futuro. Non dopo l'esplosione della bomba atomica, ma dopo la distruzione derivante dal riscaldamento globale. Vorrei anche richiamare l'attenzione sul fenomeno dei cosiddetti ‘rifugiati climatici’, non politici. Questo sta già iniziando ad accadere.” Ci dovremmo riflettere, sperando che non sia già troppo tardi.
Ottima la regia, ottima l’interprete Magdalena Wieczorek, davvero una bella scoperta: una ragazza che potrebbe compiere un bel viaggio nel successo. Girato in un’unica location, in un set costruito solo con rottami, il primo post-apocalittico polacco ci mostra un mondo devastato dai mutamenti climatici, mettendo in discussione i limiti tra umani e intelligenze artificiali.
Un film bellissimo, sebbene fosco e pessimista. Ma la colpa è solo nostra.
Riconoscimenti
2023 - Trieste Science+Fiction Festival
Premio Méliès d’argent - Lungometraggi
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