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The Old Oak (2023)


The Old Oak

UK/Francia/Belgio 2023 dramma 1h53’

 

Regia: Ken Loach

Sceneggiatura: Paul Laverty

Fotografia: Robbie Ryan

Montaggio: Jonathan Morris

Musiche: George Fenton

Scenografia: Fergus Clegg

Costumi: Jo Slater

 

Dave Turner: TJ Ballantyne

Ebla Mari: Yara

Claire Rodgerson: Laura

Trevor Fox: Charlie

Chris McGlade: Vic

Col Tait: Eddie

Jordan Louis: Gary

Chrissie Robinson: Erica

Chris Gotts: Jaffa Cake

Jen Patterson: Maggie

Arthur Oxley: Archie

Joe Armstrong: Joe

Andy Dawson: Micky

Amna Al Ali: Fatima

Debbie Honeywood: Tania

 

TRAMA: In una cittadina nei pressi di Durham, nell’Inghilterra settentrionale, ormai in declino per la chiusura delle vecchie miniere, TJ, il proprietario dell’Old Oak, l’ultimo pub rimasto in città, fatica sempre di più a tenere aperto quello che è ormai uno dei pochi spazi pubblici che restano agli abitanti. Mentre cresce la tensione tra i locali e i rifugiati siriani da poco arrivati in città, TJ fa amicizia con una di loro, Yara.

 

Voto 7,5



Il quadro è desolante. Nella piccola cittadina vicina al mare dell’Inghilterra del nord, Tommy Joe Ballantyne, per tutti TJ, gestisce un pub che sta andando in malora come tutta la zona, una volta posto vivibile per gli abitanti che lavoravano alle miniere che causavano sì diversi morti ma davano la possibilità di sostenere le famiglie. Ora è tutto dismesso e la gente non ha prospettive. Si passa il tempo bevendo boccali di birra e chiacchierare del più e del meno. La situazione si inasprisce quando arriva un pullman di profughi siriani, molti dei quali neanche parlano l’inglese e fanno fatica a comunicare con gli altri, in particolari i giovani che si sono mescolati nelle classi della scuola. Come sempre succede, quei cittadini restano sorpresi e infastiditi che le organizzazioni volontarie aiutano i migranti fornendo loro appartamenti sfitti e beni di prima necessità, oltre a qualche giocattolo ai bimbi. Sono arrabbiati perché loro devono cavarsela comunque, mentre gli ultimi poveracci arrivati vengono soccorsi. La loro reazione è assolutamente negativa e disprezzano chi li aiuta, facendo emergere quel razzismo che è sempre latente ed esplode quando credono che la loro esistenza peggiorerà con la presenza degli stranieri.



TJ è un uomo che vive solo, dopo che la moglie lo ha lasciato, ha un figlio che non gli rivolge più la parola e oltre che del pub si occupa, ora, di venire incontro alle esigenze vitali della gente arrivata. Fa subito amicizia con una ragazza siriana, Yara, appassionata fotografa armata di una macchina fotografica che uno dei più scalmanati ha fatto volutamente cadere a terra e rompere. Lui si presta persino di fargliela riparare e così entrambi trovano una sponda alle loro difficoltà. Questo flebile ma sincero legame porta, con l’aiuto di altre persone ben predisposte, a creare un clima di accoglienza, nonostante l’ostilità esibita degli altri. Astio che, crescendo nei giorni successivi anche a causa dell’aperta ospitalità di TJ nel suo locale per iniziative benefiche e di comunione tra cittadini e ospiti, causerà delle ripicche a danno del pub, facendo precipitare il morale già basso dell’uomo, che aveva già pensato a togliersi la vita, dato che la solitudine e la mancanza di soldi per riparare il locale lo avevano proiettato nella profonda depressione. Acuita per giunta dalla uccisione della sua amata cagnolina Marra (unica compagnia) aggredita dai molossi di un paio di sbandati della zona.



La perdita inconsolabile di quel piccolo animale è una metafora della perdita delle speranze di una vita migliore sia di quegli abitanti che dei profughi. Gli uni senza lavoro e prospettive, gli altri lontani dal loro Paese e dai loro cari, molti dei quali nelle carceri delle milizie islamiche e del regime di Assad, come il padre della povera Yara. “È la speranza che provoca tanto dolore”, dice lei mentre TJ la guarda impietosito mentre puliscono gli ortaggi per la mensa che preparano per i bisognosi inglesi e siriani. “Ma devo essere forte per la mia famiglia, per la comunità. Ma è tutto solo una grande recita”. È in una chiesa vecchia di mille anni che la sentiamo raccontargli le piaghe della sua bellissima Siria che non c’è più: “Bellissima”, dice riferendosi a quel luogo sacro, “I miei figli non metteranno piede nel tempio a Ted Moore, a Palmira, costruito dai romani e distrutto dallo stato islamico. Quando hai metà del tuo paese in macerie e vedi questo, ti viene da piangere. Cosa sarà fra mille anni la Siria? Quanti anni per tagliare le pietre, per sollevare il peso, immaginare la luce… quante menti brillanti, quanto sudore. Quante persone che lavorano insieme! Che posto meraviglioso! Mi dà voglia di sperare ancora. Quando torturano, bombardano gli ospedali, quando uccidono i medici, quando usano cloro gassoso, quando il mondo guarda e non muove un dito… è lì che il regime vive. Quando il mondo non fa niente. Questo fanno per spezzarci. Ci vuole forza per sperare ma loro vogliono spezzarla. Ci vuole fede per sperare. Volevamo costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di bello e guardaci: dati in pasto ai lupi. Ho un'amica che chiama la speranza ‘oscena’. Forse ha ragione, ma se smetto di sperare il mio cuore smette di battere.



Dati in pasto ai lupi. Come la piccola Marra. La metafora è spietata e dalla scena girata nel bosco dove il dogo argentino assale la cagnolina, senza che mai Ken Loach ci mostri una pur piccola goccia di sangue, è parallela alle brutalità subite dalle famiglie profughe. Come spietata è la frase che la speranza sia “oscena”: una definizione pessimistica che non lascia scampo. Ma ce l’hanno quella gente? E quei disoccupati inglesi? No, ma altrettanto è ingiusto che questi ultimi addossino colpe a chi sta peggio di loro. Lo sentiamo anche noi, in Italia, quando politici ed elettori accusano ingiustamente gli immigrati delle disuguaglianze nostrane. È l’altra lezione che dà Loach mediante il discorso che TJ fa al vecchio amico d’infanzia Charlie che, diventato razzista come gli amici, lo ha tradito vigliaccamente, dopo essere stato anche preso in giro dal gruppo che siede sempre nel pub. “Guarda in che stato è il paese adesso. Quello che è successo a te è successo a me e ai padri mio e tuo. Questo posto va in malore da anni, molto prima che arrivassero i siriani. Tu non sei un uomo stupido, come sei diventato così? Cerchiamo tutti un capro espiatorio. Se la vita va male, non guardiamo su, guardiamo sempre giù. Diamo la colpa ai poveracci sotto di noi, la colpa è sempre loro. È più facile così calpestare la faccia di quei poveri cristi, eh?



Amarissimo e verissimo. Il popolo impaurito dalle proprie vicende negative viene sempre invitato ad accusare chi sta peggio, come se questi siano la vera causa della crisi che attraversiamo da anni. Mai che si faccia una disanima realistica della situazione, mai che ci si rivolga verso l’alto, come dice il nostro protagonista. Sono quindi tre i principali aspetti di questa storia triste e desolante: la speranza che si perde (oscena, termine destabilizzante), gli impauriti dati in pasto ai prepotenti e a chi ci guadagna (i lupi implacabili che azzannano), la lotta tra poveri, che è, in buona sostanza, il colpevole abbandono della lotta di classe, che almeno aveva un comune sentire, una ideologia come fede. Ora, invece, si fissano false cause senza fornire la pur minima speranza, considerata da molti – i meno abbienti – come un miraggio.



La working class tanto cara all’autore si è indebolita, si è impaurita, non combatte gli ideale che aveva una volta, proprio come il pub di TJ, “La Vecchia Quercia”, che, come un albero robusto e resistente, ha sopportato nel tempo tutte le avversità ma sotto i colpi del razzismo e dell’impoverimento della popolazione ha visto crollare il sogno. La battaglia tra ricchi e poveri vista solo dal lato dei poveri è una lotta tra impotenti, è il suicidio collettivo, ma solo di questi, mentre gli altri neanche si affacciano alla finestra per osservare il declino della società. Se oggi la società nell’era della globalizzazione non è più quella locale o regionale, ma è il mondo intero, aspettiamoci che l’ultimo del mondo verrà a chiedere aiuto dietro la nostra porta: le trasmigrazioni sono millenarie e nessuno le ha potuto fermare perché, quando una popolazione ha fame, si sposta anche scavalcando muri e avventurandosi nei mari. Come voleva finire la vita il povero e generoso TJ.



Lì, in quel mare, c’è una boa, un ormeggio, un faro, un’isola per rifiatare e si chiama Ken Loach. Il quale predica nel deserto delle sale cinematografiche per la sua personale missione, come una roccia, anzi come una vecchia quercia, che resiste, anche se la “K” ogni tanto si piega sotto le intemperie della vita. L’importante è che ci sia, in giro e sotto ogni insegna, un qualsiasi TJ di buona volontà che la raddrizzi. Altra potente metafora del film.



I pochi che hanno l’ardire di leggermi avranno notato che stavolta ho inserito molte frasi della commovente sceneggiatura del fedele Paul Laverty e un motivo c’è. La trama è una delle tante così simili del regista e non si discosta dalle altre se non per l’ambientazione e i personaggi ma tutto si ripete e non perché Loach non sappia trovare altri argomenti ma perché, semplicemente, questa è l’amara realtà dei nostri giorni, come lo erano ai tempi della Iron Lady, periodo in cui il welfare e la fascia operaia furono pian piano ma inesorabilmente abbandonati al loro destino: di cosa altro doveva cantare il caro Ken? Semplicemente ho lasciato parlare i protagonisti per spiegare il film. Fino a questo ultimo lavoro (ahinoi, pare proprio sia l’ultimo) lui ha sempre guardato davanti a sé, alla sua lotta e a quella dei suoi piccoli eroi quotidiani, puntando il dito verso il Potere, i soprusi, i prepotenti della società, ed oggi i cattivi maestri della discriminazione, che etimologicamente viene da “separare, distinguere, fare una distinzione”. Ma fra chi? Solo tra i bisognosi, tra cui quelli che si autodefiniscono cristiani e sono i primi a non accogliere chi bussa alla porta?



Piuttosto, lo smarrimento dello spettatore devoto di Ken Loach è spaventato dal suo pessimismo, mai affacciatosi prima, dal suo sguardo senza speranza di un mondo che non accoglie, in cui il suo sceneggiatore fa dire alla cara Yara che la speranza è oscena. Non voglio credere che proprio nell’ultimo film egli ci lasci con tanta sfiducia nel futuro e nell’uomo. Menomale che, però, il mesto ma affettuoso omaggio di tantissima gente alla porta della famiglia di Yara alla notizia della morte del padre segni uno squarcio di azzurro nel cielo nuvoloso del film. Riparliamo di speranza? Magari, speriamo.



Il neorealismo moderno che ho sempre citato a proposito del cinema di Ken Loach lo ritrovo intatto anche qui: gente comune che recita e recita benissimo, con naturalezza, con una sceneggiatura impietosamente toccante. Bravo Dave Turner (tre interpretazioni, sempre con lo stesso regista), l’ennesimo piccolo eroe piuttosto in carne, come l’indimenticabile John Henshaw, che in altre occasioni facevo assomigliare al mio amatissimo Joe Cocker: semplice, dalla recitazione spontanea, sincera, da volergli bene per forza. Ancora più efficace la bella debuttante Ebla Mari, attrice siriana che vive in Inghilterra, che prima del set neanche conosceva il regista (!) e le sue opere, ma che ha apprezzato sin da subito. È bravissima, sempre con il suo sorriso malinconico di ragazza sfortunata, occhi lucidi di lacrime pronte quasi mai cadenti, una bella scoperta.

È triste sapere che è l’ultimo lavoro dell’amato regista: da oggi il Cinema sarà più povero, conservando però l’immensa ricchezza che ci ha donato con tutti i suoi film e con questo suo commovente e doloroso addio.

Come faremo mai a ringraziarlo per tutto questo e per aver cercato di raddrizzare tutte le lettere storte della nostra società?



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