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The Painted Bird (2019)


The Painted Bird

Rep.Ceca/Slovacchia/Ucraina 2019 dramma 2h49’


Regia: Václav Marhoul

Soggetto: Jerzy Kosinski (romanzo)

Sceneggiatura: Václav Marhoul

Fotografia: Vladimír Smutný

Montaggio: Ludek Hudec

Scenografia: Jan Vlasák

Costumi: Helena Rovna


Petr Kotlár: Joska

Udo Kier: Miller

Stellan Skarsgård: Hans

Harvey Keitel: il prete

Julian Sands: Garbos

Barry Pepper: Mitka


TRAMA: Da qualche parte nell'Europa dell'Est, durante la Seconda guerra mondiale, un bambino ebreo cerca salvezza e rifugio. Ha così modo di imbattersi in individui tra loro molto diversi.


Voto 8

… (per completare la trama) e anche, in toni variegati, molto, moltissimo cattivi, anzi, abitati dal Male e da questo accecati, in maniera totalmente disumanizzante. Ad eccezione solo di qualche sparuto individuo dall’animo accogliente.

Il cast artistico indicato è solo una minima parte della miriade dei personaggi che appaiono in questo lunghissimo film, in cui affluiscono persone di vario ceto e occupazione, dai tanti contadini, ai soldati, ai banditi, ai solitari e inselvatichiti abitanti dei boschi, un prete, alcuni possidenti. Ma nella quasi totalità mossi solo dalla malvagità che alberga nel loro corpo e nella loro mente. I pochi nomi indicati sono quelli del protagonista e degli attori noti. Il resto non elencato è un esercito di comparse o personaggi che assumono una certa importanza nella storia ma sconosciuti o presi dalla strada dal regista.

Film che non tutti terminano di guardare a causa delle sequenze brutali, disumane, al di là di ogni fantasia forse mai vista al cinema prima, almeno in quello che si può definire (per convenzione) cinema di qualità.

Non è un film di guerra, non è un horror, non è un fantasy (è talmente insopportabile che si può intendere, appunto, frutto di una fantasia malefica che va oltre la comprensione), non è un film d’avventura. In realtà è tutto questo e anche di più. Quindi indefinibile. E terribile.

Assodati questi aspetti, necessari per cominciare a capire davanti a quale sorta di opera straniante e spaventosa ci si trovi, va detto che il protagonista è un ragazzino di cui si ignorerà il nome sino all’ultima inquadratura in cui, finalmente, scrive il suo nome sul finestrino appannato del pullman che lo sta riportando a casa, lontano dall’inferno che ha dovuto attraversare per molti mesi. Il soggetto è un romanzo di Jerzy Kosiński – scrittore polacco divenuto cittadino statunitense - che descrive la Seconda Guerra Mondiale vista da questo bimbetto, considerato uno “zingaro o ebreo randagio” che vaga per piccoli villaggi sparsi in un paese non specificato dell’Europa centrale e orientale. La storia pare scritta e adattata sullo schermo come un’autobiografia, dato che segue passo dopo passo, il lungo peregrinare che lui affronta con la pazienza e la forza di un adulto. Però, attenzione: quando dico pazienza, oppure malvagità, ci si deve interrogare da cosa scaturiscono queste sensazioni, perché è lampante che la pazienza e il coraggio del ragazzino vengono solo dalla estrema necessità si scappare dalla fame, dalla solitudine e dagli abusi che riceve; come anche la cattiveria di queste persone non è un sentimento innato, forse coabitante ma di sicuro prodotto dalla miseria, anche umana, che caratterizza la loro vita, il terrore di soffrire, la paura di essere deportati dall’invadente e feroce esercito nazista. Insomma, un mare di malvagità, che arriva sino alla ferocia, alimentato da un impetuoso torrente di paura che condiziona le scelte di ognuno di loro. Senza distinzione tra uomini e donne, mentre gli animali assistono senza capire. Perfino l’atrocità nazista passa in secondo piano, perché è la Guerra in sé, che porta indigenza e morte, la causa principe delle miserie umane, generando distruzione, fame e morte.

Vi si descrivono gli incontri del ragazzo errante con contadini impegnati in tutte le forme di devianza sessuale e sociale come l’incesto, la bestialità e lo stupro, e in altre forme di estrema violenza e lussuria. Il titolo del libro è tratto da un episodio della storia. Il ragazzo, mentre è in compagnia di un allevatore di uccelli, osserva come l’uomo prenda uno dei suoi volatili catturati e lo dipinga di diversi colori. Poi, lasciato volar via l’uccello, in cerca di uno stormo di suoi simili, appena incontrato nell’aria quelli che cercava, i suoi fratelli gemelli lo vedono come un intruso per via di quei colori innaturali e attaccano brutalmente l’estraneo visto come un nemico e lo colpiscono fino alla morte, cadendo dal cielo. Questo è l’esempio più calzante della causa delle sciagurate disavventure (termine riduttivo) che capitano al bimbo visto come un “diverso”, sempre muto per ciò che vede e dal male che gli arrecano. Tutti, tranne qualche strana eccezione. Strana perché in questo universo generalizzato di persone-animali che si scagliano contro di lui, che se ne approfittano (in ogni senso), risulta, ad ogni buon conto, si comporta umanamente, dandogli rifugio, cibo, vestiti. Sono una rarità, insomma.

Siamo quindi in un'area non identificata dell’Europa orientale devastata dalla guerra, dove (solo alla fine si intuisce che i genitori ebrei lo avevano confinato presso un’anziana parente nella profonda campagna, per evitare la deportazione da parte dei tedeschi) un ragazzino vive con la donna, ma sorpreso e turbato dalla sua morte improvvisa e a causa di un accidentale incendio della casa, comincia a vagare per le campagne senza meta. Le sue ulteriori, infinite, disumane avventure sono una serie di incontri orribili con l’ignoranza, lo sfruttamento e la depravazione. Nel primo villaggio che raggiunge, per esempio, un vecchio guaritore lo compra pensando di farne uno schiavo, ma in seguito viene accusato di sfortuna e gettato in un fiume. Riesce a cavarsela, nonostante il freddo (se la caverà miracolosamente sempre, in seguito) e viene accolto da un mugnaio e da sua moglie, nella cui casa inizia la serie infinita di oscenità macabre che costellano il racconto. È più di una classica situazione di discesa agli Inferi, è molto di più, è inenarrabile. E quando sembra che questo giovinetto sempre muto, che guarda con occhioni spalancati l’orrore che il mondo gli offre a così caro prezzo, quando sembra che debba soccombere, che debba – si potrebbe dire, finalmente! – perire e finire di soffrire (chissà se più fisicamente, in ogni parte del corpo, oppure moralmente, rasentando il lato psichiatrico, perché si può anche impazzire), ricomincia a peregrinare verso nuove sventure. Sino a quando, in questo universo malefico, un arcobaleno di speranza e di nuova vita si affaccia nel momento in cui tutto pare perso. Dopo aver vagato per centinaia di chilometri, ecco la disperazione e la gioia dipinte sul viso del padre ritrovato.

Perché vedere questo film, è la domanda logica e spontanea che viene a chiunque: perché nel suo meraviglioso e nitido bianco e nero si staglia la Storia, quella più brutta, quella della guerra che uccide il corpo e la mente e rende tutti delle bestie. Perché la crudeltà mostrata senza filtri (appena non inquadrata nelle scene più bestiali) è la fotografia più pessimista dell’Uomo. Perché l’uomo è cattivo, egoista, difende il proprio orto, uccide per sopravvivere, soddisfa i suoi più bassi istinti e poi va a confessarsi senza né pentirsi né ammettere i suoi peggiori peccati, è forte con i deboli e ne abusa, è falsamente umile nei confronti di chi lo può annientare. Una visione pessimistica? Forse, ma i libri di storia sono pieni di guerre e di uccisioni per sopravvivenza. Per diventare re, erede, pretendente unico, padrone di un oggetto desiderato. Non è un film di terrore, è una biografia che forse sarà anche accaduta veramente nelle zone più misere dell’Europa in un momento storico difficilissimo. D’altronde l’Olocausto o il genocidio degli armeni, degli indiani d’America, o di ogni altro popolo cancellato o quasi dalla faccia della terra, sono storie edificanti?

Perché vederlo? Perché è bellissimo, perché il piccolo Joska è la fotografia dell’innocenza stuprata dalla cattiveria (dis)umana, che assiste impotente alle proprie disgrazie come se stiano accadendo agli altri e lui (spesso in primi piani commoventi) sia solo uno spettatore muto e spaventato, inerte, silenziato dall’orrido che si manifesta intorno. Perché è un film fatto molto bene e con una regia esemplare.

Come è anche chiaro che c’è un’altra parte di pubblico (forse più numeroso?) che non sopporta il lavoro di Jerzy Kosinski prima e di Václav Marhoul dopo e smette in anticipo la visione o ne scrive solo per giudicarlo pessimo. Per questo i voti che ho rilevato vanno dallo 0 a quelli più alti, i giudizi spaziano dallo schifo all’elogio, come il mio modestissimo.

Fotografia straordinaria, scenografia curata e scelta con scrupolosità, casting delle accozzaglie umane eccellente, musica assente per dare maggiore drammaticità: noi, Joska e il Male.

Il piccolo Petr Kotlár è stupefacente e per ammirarlo bisogna essere pronti e preparati.

Gran film.

Il regista: “Non è un film di guerra e nemmeno un film sull’Olocausto. A mio vedere, è una storia senza tempo. La lotta tra le tenebre e la luce, tra il bene e il male e tra molti altri opposti. Questa storia ci obbliga a farci numerose domande scomode e a trovare da soli risposte spesso molto dolorose. Instilla dubbi profondi sullo scopo e sul destino della specie Homo sapiens, dubbi tanto dolorosi da farci aggrappare a qualsiasi spiraglio positivo. Solo nelle tenebre possiamo vedere la luce. Almeno questa è la mia lettura. Per me la speranza risplende attraverso tutti gli orrori possibili. Per ogni artista, trattare questi temi è una sfida: quasi una questione di vita o di morte.”

La realizzazione è durata ben otto anni e si è rivelata piuttosto complessa sin dalle fasi di preparazione. Sono serviti più di due anni di sforzi per ottenere i diritti cinematografici del romanzo, ben 17 diverse stesure della sceneggiatura (che ha richiesto tre anni per essere ultimata) e altri tre anni tra il finanziamento dell'intero progetto e le riprese. Le sole riprese sono andate avanti per un periodo di 16 mesi tra l'Ucraina, la Slovacchia, la Polonia e la Repubblica Ceca, e il set si è spostato in 43 differenti location. Sono state girate oltre 263 scene (in 35 millimetri e in bianco e nero) e battuti 3531 ciak.

Riconoscimenti

23 premi e 24 candidature in tutto il mondo, tra cui:

2019 – Festival di Venezia

UNICEF Award


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