The Quiet Girl
Irlanda 2022 dramma 1h35’
Regia: Colm Bairéad
Soggetto: Claire Keegan (‘Foster’)
Sceneggiatura: Colm Bairéad
Fotografia: Kate McCullough
Montaggio: John Murphy, Maire Ni Chonlain
Musiche: Stephen Rennicks
Scenografia: Emma Lowney
Costumi: Louise Stanton
Catherine Clinch: Cáit
Carrie Crowley: Eibhlín Kinsella
Andrew Bennett: Seán Kinsella
Michael Patric: il padre
Kate Nic Chonaonaigh: la madre
TRAMA: Irlanda rurale, 1981. Una ragazza lascia la sua famiglia disfunzionale per vivere con i suoi genitori adottivi per l'estate. Lei prospera sotto la sua cura, ma in questa casa dove non dovrebbero esserci segreti, ne scopre uno.
Voto 8,5
Tra i film candidati agli Oscar 2023 c’è questo piccolo (solo apparentemente) lavoro del dublinese Colm Bairéad (autore più che altro di serie TV) ma, attenzione, nella categoria di quelli in lingua straniera, perché parlato totalmente e solamente in irlandese: prima volta nella storia del cinema dell’isola una nomination in quella lista. Un film di formazione, un coming age che incomincia in sordina, quasi come un piccolo racconto indigeno che prende forma e slancio nel corso della narrazione, fino a prendere un volo meraviglioso. Una progressione recitativa sommessa che prende vigore scena dopo scena fino a conquistare il cuore di chi assiste, inebetito. Proprio come accade alla giovanissima protagonista che cresce, seppure nel giro di poche settimane, come un albero che stava rinsecchendo e che invece trova acqua, linfa e aria per poter scoprire la bellezza dell’amore familiare.
L’intero film, basato sul racconto del 2010 Foster di Claire Keegan e per lo più in gaelico irlandese, è interamente raccontato dal punto di vista della piccola Cáit. Lo sceneggiatore e regista Colm Bairéad, con il suo debutto nel lungometraggio narrativo, utilizza un rapporto d'aspetto quadrato, limitato come lo stesso punto di vista della ragazzina. È una storia in cui noi, spettatori adulti, abbiamo più conoscenza del suo giovane personaggio centrale: vediamo sfumature che lei non può cogliere. Così i nostri cuori si emozionano per lei quando scopre che la vita a casa della cugina di sua madre, Eibhlín (Carrie Crowley), e del marito contadino e allevatore di bestiame Seán (Andrew Bennett), bravissimi entrambi, è calma, tranquilla, a dirla come il titolo. Non ci sono altri bambini in quella casa. E lei è, all'inizio, un po' confusa nel ricevere improvvisamente le cure tenere che ogni bambino merita e che, istintivamente capiamo, non ha mai sperimentato prima verso di sé. La gentilezza, la dolce umanità con cui il regista descrive cose semplici di tutti i giorni, vedi come donna che spazzola i capelli di Cáit o la rimbocca nel letto, le pulisce le orecchie, è così toccante che intuiamo che è la prima volta che la bimba viene trattata con tale gentilezza e tenerezza. E affetto. Succede, infatti, che nella sua famiglia le cose non vanno bene: le bocche da sfamare sono tante, un altro bimbo è in arrivo, i soldi non bastano mai, lo sfalcio del fieno viene continuamente rinviato per le difficoltà a pagare gli operai, il cibo è poco. In questo panorama la piccola e bella Cáit viene bellamente trascurata, anzi redarguita perché bagna sempre il letto. Quando la madre la chiama per andare a scuola, lei si nasconde sotto per la vergogna e per il certo rimprovero. La vita in casa, la enuresi notturna, la tendenza ad allontanarsi per ore alla volta, sono chiari segni del suo disagio, che si protrae persino a scuola, dove non ha i soldi per un po’ di latte, e si sente in imbarazzo tra gli amichetti che la prendono in giro perché non sa leggere fluentemente. Preferisce scappar via e girovagare per la campagna. Ecco il motivo per cui, arrivata l’estate, i suoi decidono di farle trascorrere l’estate nella casa della cugina della madre, che lei non ha mai conosciuto. Depositata più che lasciata, lì.
Il suo disagio non finisce solo perché è lontana dalle cause, è troppo sfiduciata, nel suo piccolissimo mondo, per attendere che qualcuno le rivolga attenzioni umane che ogni bimbo può aspettarsi. E quando Eibhlín la accoglie con un luminoso sorriso che promette molto bene non si fida di primo acchito, accorgendosi che anche il marito Seán è taciturno e scontroso. Forse, tranne il calore dimostrato dalla padrona di casa, non è rassicurante, pare solo di cortesia. Difatti, anche in quella bella e accogliente casa, con tanto di pascoli, stalle, vacche da mungere ed un misterioso cane tenuto a distanza, la mattina la parente trova le lenzuola bagnate. Ma come non notare l’aria diversa in quel posto? Le colazioni ricche di marmellate, latte ed ogni bendidio, pasti caldi e certi, un congelatore zeppo di cibo, forse un po’ di noia, anche perché Seán non accetta di portarsela dietro per farle trascorrere la giornata monotona. Poi, un giorno, proprio alla prima occasione della visita nelle stalle con l’uomo, lo spavento provato da quest’ultimo per una iniziativa della ragazzina le cose cambiano un po’ e comincia ad instaurarsi un nuovo rapporto. Meglio, nasce un legame affettivo fatto più di gesti che di parole, che si aggiungono ai quelli affettuosi della sorridente moglie. Sì, Cáit avverte un cambiamento in meglio della sua silenziosa esistenza: l’amore familiare esiste e lo si può sperimentare. Dimostrato dal fatto che lei, che non aveva abiti di ricambio e che veniva vestita con pantaloni e camice che sicuramente erano appartenuto ad un maschietto, ora, in occasione di una visita ad una familiare, è stata portata in paese per acquistare abiti femminili che le si confanno. È tutta un’altra Cáit! Ora avverte la felicità, va sempre con Seán ad aiutarlo nel quotidiano del lavoro, lui la cronometra mentre corre verso la cassetta postale in cima al vialetto e torna indietro, abbassando sempre più il suo personale record. Cos’è la felicità e la tranquillità comune, lo sta conoscendo solo ora.
Per essere chiari, i genitori della protagonista non sono violenti, non sono crudeli e se sono negligenti non ne sono quasi coscienti: è la precarietà la vera causa, oltre forse a non essere dei genitori ideali, è la difficoltà della vita: quante volte abbiamo sentito, specialmente nei periodi del dopoguerra, che i bambini andavano a vivere dai parenti benestanti? Ma la scoperta da parte di Cait del fatto che la vita può essere migliore del minimo indispensabile che finora aveva visto e che ha sperimentato è il momento più importante della sua vita e lo si nota dalla sua espressione più serena. Ovvio, Eibhlín e Seán sono più complicati di quanto lei possa apprezzare all'inizio e il lento svolgersi dei loro misteri attraverso i suoi occhi diventa la consapevolezza nascente del riconoscimento da parte di una bambina della ricchezza della vita adulta. Quindi questo è un altro risveglio, che non solo la sua vita può essere di più, ma che le vite degli altri sono già di più. Per una bambina perspicace e comprensiva come Cait, questo è sconvolgente. I suoi genitori? E chi se li ricorda più. Sono un ricordo lontano, più delle miglia che li separa: qui svolge una vita attiva, è benvoluta, è amata e perdipiù ha conquistato l’affetto di un uomo che pareva uguale al padre. Le parla, l’aiuta, le sorride, la porta in giro per la proprietà, si fa aiutare, le cronometra la corsa. È felice. Adesso è una quiet girl, dove il termine descrive perfettamente non solo la protagonista ma anche il modo di lavorare del regista Colm Bairéad, come se le immagini che ci scorrono davanti agli occhi, in quello schermo ridotto nella scelta tecnica, bastassero a loro stesse mentre le parole fossero un elemento di disturbo, una sorta di “rumore” che dunque lui utilizza con parsimonia.
Due fatti possono molestare la situazione che si è beatamente creata: il mistero che abita in quella casa (di chi erano quegli indumenti da ragazzino, di chi era quella cameretta, perché i due sono senza figli mentre i suoi genitori non riescono a sfamarli tutti? Perché Eibhlín ha un sorriso illuminato ma triste e Seán era così introverso quando invece è buonissimo?) e l’estate che sta finendo. Il fantasma del padre che ritorni a riprendersela per farla tornare in casa e rimandarla a scuola si sta concretizzando. Viviamo le paure di Cáit continuamente perché il regista ce le fa vivere in prima persona, perché il romanzo originario è dettato dalla voce narrante della piccola e Bairéad ne segue le orme in questa maniera, facendoci vivere le sue sensazioni: noi siamo nei suoi occhi e nella sua mente senza che ce ne accorgiamo. E soffriamo con lei, nella sua espressione, che grazie a Dio è serena e felice, che cambia all’arrivo inaspettato del padre: è finito il mondo ideale che stava vivendo. Ha sempre parlato poco, la sua laconicità era l’espressione dei tormenti, era tornata ad esprimersi esaurientemente nei momenti di maggiore felicità, ora si è ammutolita con l’animo ed il cuore che le si restringono fino a sentirne il dolore fisico. È cresciuta ma ora si sta rimpicciolendo, soprattutto quando, un brutto giorno, Eibhlín e Seán le preparano la valigia con i bei vestiti ricevuti in regalo e la riaccompagnano alla sua vera casa, dai suoi veri genitori. E ripartono.
Quando lo spettatore si aspetta che lei faccia un gesto o dica qualcosa è una speranza sprecata e l’auto si allontana. Dov’è la Cáit che corre veloce? Rieccola che, lasciando inebetiti i genitori, rincorre le persone che la amano davvero per salutarli. Noi siamo tutti lì, siamo le braccia di Seán, siamo i muscoli e i tendini che abbrancano il corpo piccino che non toccheranno più. E, maledette le nostre lacrime, sentiamo una parola che ci uccide, ripetuta.
Girare un film in quella lingua è stata una sfida e un’impresa, ma soprattutto una vittoria. Per giunta in un film abbastanza silenzioso fatto di sguardi, espressioni, gesti. Solo qualche termine inglese sparso qui e là, ma illuminante, che quell’ultima parola. Tutto normale per una persona come Colm Bairéad, che, spiega, lui con la famiglia parla irlandese, per cui non poteva immaginare di fare il film in nessun’altra lingua. La cosa più importante era che il suo uso risultasse autentico e credibile anche per un pubblico di connazionali, che sa perfettamente in quali contesti e in quali aree del paese si parla l’irlandese. E poi c’è il ripetersi del solito miracolo: la recitazione inappuntabile di una bambina, di una bravura sconcertante, di una bellezza chiara e leggibile che ha saputo esprimere tutti i sentimenti con il viso quasi sempre impenetrabile. Per trovare questa meraviglia di bimba chiamata Catherine Clinch, il regista dice di averci messo sette mesi, e così dice di lei: “Ha afferrato subito alcuni elementi essenziali della storia e possiede una specie di arrendevolezza, una disponibilità a rendersi vulnerabile di fronte alla macchina da presa che ho trovato meravigliosa. Ho cercato di sfruttare questa qualità, dirigendola il meno possibile.”. E il miracolo non si ferma quando si stabilisce una sorta di connessione epidermica tra spettatore e personaggio, un’intesa che raggiunge il suo apice nei primi piani. La sensazione si ribalta totalmente quando invece a essere filmati sono i genitori naturali della protagonista, a cui la macchina da presa riserva uno sguardo molto differente e tagliente. Il resto lo fa il formato 4 : 3 che restringe lo sguardo, nostro e di Catherine Clinch.
Maledette le lacrime finali (dello spettatore)!
Che meraviglia di film!
Riconoscimenti
2023 - Premio Oscar
Candidatura per il miglior film in lingua straniera
2023 - British Academy Film Awards
Candidatura per il miglior film britannico
Candidatura per la migliore sceneggiatura non originale
2023 - Satellite Award
Candidatura per il miglior film in lingua straniera
2022 - London Critics Circle Film Awards
Miglior film in lingua straniera
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