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To Leslie (A Leslie) (2022)

To Leslie (A Leslie)

USA 2022 dramma 1h59’

 

Regia: Michael Morris

Sceneggiatura: Ryan Binaco

Fotografia: Larkin Seiple

Montaggio: Chris McCaleb

Musiche: Linda Perry

Scenografia: Emma Rose Mead

Costumi: Nancea Ceo

 

Andrea Riseborough: Leslie Rowlands

Marc Maron: Sweeney

Allison Janney: Nancy

Andre Royo: Royal

Owen Teague: James

Stephen Root: Dutch

James Landry Hebert: Pete

Catfish Jean: Darren

 

TRAMA: Leslie è una ragazza madre che vince alla lotteria un sacco di dollari e li dilapida velocemente, abbandonando il figlio. Poi, rimasta sola e alcolizzata, tenta di raddrizzare la vita tornando al luogo di origine.

 

Voto 7



Il fenomeno della scoperta dei film piccoli e imperdibili meriterebbe una laurea specialistica, dal momento che per scovarli è necessario o una ricerca meticolosa che spesso porterebbe a risultati disastrosi o l’indispensabile passaparola, che in realtà è il metodo che ha sempre funzionato tra i cinefili. Oppure - ed è questo il caso - si gonfia la bolla attorno ad un film con una strategia studiata a tavolino. Ma di ciò ne parliamo più avanti. Fatto sta che questo più che piccolo ed ultra-indie, il film di Michael Morris ha fatto tanto parlare di sé che una volta avuta l’opportunità non si può non vederlo, per poi accorgersi che, nonostante non sia un’opera indimenticabile, in effetti le voci che correvano al proposito erano davvero fondate e che meritava senza dubbio di essere visto e valutato.



Se il film piace, il merito va ovviamente a chi lo ha immaginato, scritto e diretto, lavorando su un tipico copione da film indipendente, roba da festival, come si suol dire, anche se, poverino, non ha avuto grandi possibilità, essendo stato presentato solo a sei festival minori e poi distribuito nelle sale americane, dove gli scarsi risultati non hanno sorpreso, tanto che l’incasso mondiale è risultato alla fine di poco superiore ai 400 mila dollari. Una miseria. Solo questi i meriti? Affatto, perché più che degli autori, il film è andato a finire nelle mani e nelle virtù di un’attrice che, quando ha l’occasione, sa dare tutto di sé, ricavandone una prestazione ragguardevole. È Andrea Riseborough, donna che ha quasi sempre recitato in ruoli non facili e spesso borderline, al limite della società, abnormi esempi di reiette, di personaggi fumosi, di personalità sofferte.



Per far conoscere bene la sua Leslie, Michael Morris ci introduce nelle prime sequenze al suono di Dolly Parton che canta con la sua particolare vocina “Here I Am”, eccomi qui, come per dire guardate un po’ che stramba che sono, studiatemi con attenzione e poi non meravigliatevi. Perché? Perché lei è una madre single che vive in Texas e fa sacrifici per cercare di mantenere il figlio. Quando vince ad una lotteria ben 190.000 dollari, non solo non mantiene la promessa fatta alla TV locale di comprar casa e viverci con il suo James, ma sperpera tutto e in poco tempo e si fa, di conseguenza, tutti nemici, dai genitori ai parenti e amici più prossimi, fino a cadere in disgrazia e senza più nessuno su cui contare. Partita per lidi lontani e sconosciuti, sempre più allo sbando, dormendo dove capita, capisce che deve tornare quanto prima al suo paese di origine, dove non ha più alcun contatto ma è anche dove spera di poter provare a ricominciare. È qui che incontra Sweeney, un uomo solitario che gestisce un motel non suo e che, dopo averla assunta e anche licenziata per la assoluta inaffidabilità, si impietosisce e la riassume, sino al punto di volerle dare quella seconda opportunità che tutti gli altri finora le hanno negato. Anzi, il loro rapporto si evolve e matura in una eventualità mai prima immaginata.




Ancora una volta Andrea Riseborough si trasfigura in una donna sciagurata: Leslie è slabbrata, trasandata, spesso ubriaca, si imbelletta solo la sera quando va nei bar per una birra e cercare di agganciare qualcuno che le paghi da bere, a qualsiasi prezzo. Aveva provato a riprendere contatto con il figlio James (Owen Teague) che, per fortuna, è un ragazzo a posto e che lavora in città: aveva provato a ricucire con l’amica di sempre Nancy (Allison Janney) ma rovinando tutto appena arrivata: ora prova a guadagnarsi la giornata presso il motel di Royal (Andre Royo) gestito dal buon Sweeney (Marc Maron). Ma va sempre di male in peggio. Leslie è una donna “interrotta”, da troppo tempo e ci vuole troppa pazienza e lavoro psicologico per rimetterla in sesto: solo un samaritano del destino potrebbe aiutarla, ammesso che sia possibile recuperare una donna ormai data per persa da tutti. Dall’amica Nancy, che ormai la maltratta ritenendola inutile e dannosa, alle vecchie amicizie del paese, sino al figlio James che è rimasto deluso e scottato dall’ultimo contatto. Leslie è un’anima in pena che sta vagando dal Purgatorio all’Inferno.



Il film è il percorso della donna, un tragitto disegnato sul modello delle montagne russe, con inabissamenti che paiono definitivamente deleteri e con risalite che puntano alla rinascita. In mezzo i dubbi, le crisi di astinenza, il bancone del bar, qualche gonzo e rozzo ranchero da spennare. E nel frattempo il buon Sweeney attende paziente che ritorni, pronto a sorriderle. “Perché sei così buono con me?” “Beh, penso che sia abbastanza ovvio ormai.” Dopo averla anche aspramente rimproverata nei momenti più difficili: “Stai vivendo, giusto? Mi dispiace che non sia una favola. Tutti noi avremmo dovuto fare le cose in modo diverso. Ma tu sei quello che non va in te. Nessun altro.” Intanto si trascina da un posto all’altro con la sua valigia gialla contenente abiti sempre appallottolati e consumati, più il fardello del passato chiuso in una busta in cui conserva le foto dei giorni meno tristi: il suo bambino, i ricordi, tutto quello che era e che non è più. Sfogliate con lo sguardo velato dalle lacrime e con la debole volontà di aggiustare una vita che va a rotoli.



Leslie non ha mai il viso disteso in modo naturale: è una continua smorfia, quando parla, quando è in crisi, quando ha voglia di bere, di sbeffeggiare l’interlocutore, di ammiccare, di strafottenza. In ogni occasione adatta i muscoli facciali come le va a genio, irresistibilmente contro. Ma se la colpa è in sé, lo è anche il tentativo di riconciliarsi con la vita, con gli altri, magari con Sweeney, ma soprattutto con James. E se l’occasione giusta, dopo il tonfo, fosse quella gelateria abbandonata da 40 anni che si può trasformare in un locale per preparare da mangiare, per esempio hamburger e pasta e fagioli? Non è una cattiva idea.



Credo che un’occasione come questa Andrea Riseborough non l’ha mai avuta, nonostante i tanti personaggi interpretati, quasi tutti da caratterista. Un ruolo da prima attrice con la A maiuscola, che aveva bisogno di una interpretazione maiuscola, altrimenti fallimento totale. Ed invece bingo, anzi lotteria vinta. Fino alla candidatura agli Oscar 2023. Che però ha una storia ben più grande del film, che è, appunto, piccolo.



Succede, infatti, che gli osservatori più attenti, soprattutto quelli molto attivi sui social media, lo conoscevano soprattutto perché, verso la fine di gennaio, improvvisamente tutti gli attori più celebrati di Hollywood sembravano parlarne per elogiare la straordinaria performance dell’attrice. “Un piccolo film con un grande cuore” si leggeva di continuo nei tweet delle celebrità (gente come Gwyneth Paltrow, Edward Norton, Amy Adams, Jane Fonda, Cate Blanchett, Kate Winslet, che parlava de “la migliore performance femminile mai vista”, e tantissimi altri). In realtà si trattava degli effetti pianificati di una strategia vincente: indagando, dopo la sorprendente nomination di Riseborough, testate di settore come “Variety” hanno scoperto che la moglie del regista aveva mandato mail a tappeto a tutti i suoi amici attori, chiedendo loro di guardare il film del marito e, se l’avessero apprezzato, di parlarne sui social network, soprattutto nella cruciale ultima settimana di votazioni per le nomination. Se per la vittoria finale votano tutti i membri dell’Academy, solo gli appartenenti alle singole categorie professionali designano le cinquine delle candidature, e così la “campagna alternativa” (pare autofinanziata dalla stessa Riseborough) si è concentrata sull’unico elettorato che contava: gli altri attori. E, di contro, molti colleghi sono stati probabilmente felici di sostenere l’attrice perché la sua performance è in effetti ottima e di quelle molto gradite all’Academy, tra mimesi, dramma e la cosiddetta “de-glam”, cioè l’“imbruttimento” di un’interprete convenzionalmente bellissima. E così l’ottima prova d’attrice unita alla convinzione di partecipare a una “campagna dal basso”, una sorta di battaglia di Davide contro Golia, come dire piccoli indie vs grandi major, ha sicuramente contribuito a proiettare l’attrice verso l’agognata nomination.



A prescindere da tutto ciò, il film va lodato per la rappresentazione sincera e cruda della vita di una donna in difficoltà, sottolineando la profondità emotiva della narrazione, oltre al fatto che sia una storia di riscatto e resilienza che tocca facilmente molti spettatori. Come anche sono pregevoli la grande umanità del film e le interpretazioni dei suoi attori principali, specialmente quella della protagonista e senz’altro quella di Marc Maron. Mentre Allison Janney è tosta come sempre, difficile non notarla. Per l’esordiente Michael Morris è stato un buon battesimo tramite il cinema indipendente con una narrazione sincera e una fotografia che cattura bene l’atmosfera della provincia americana, che ben conoscono i cinefili, tante volte raccontata. L’esibizione di Andrea Riseborough è definibile un “one woman show”. Senza dubbio. Che brava!

 

In complesso 6 premi e 9 candidature in campo internazionale, tra cui appunto la candidatura agli Oscar dell’attrice protagonista.



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