Torneranno i prati (2014)
- michemar
- 11 feb 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 21 mag 2020

Torneranno i prati Italia 2014 dramma/guerra 1h20'
Regia: Ermanno Olmi Sceneggiatura: Ermanno Olmi Fotografia: Fabio Olmi Montaggio: Paolo Cottignola Musiche: Paolo Fresu Scenografia: Giuseppe Pirrotta Costumi: Andrea Cavalletto
Claudio Santamaria: il maggiore Alessandro Sperduti: il tenente Francesco Formichetti: il capitano Andrea Di Maria: il conducente di mulo Camillo Grassi: l'attendente Niccolò Senni: il dimenticato Domenico Benetti: il sergente Andrea Frigo: il soldato comandato Andrea Benetti: il caporale Francesco Nardelli: soldato Toni
TRAMA: Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare i minuti e le ore, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore.
Voto 8

“La guerra è una brutta bestia, gira il mondo e non si ferma mai.”
Dice così la frase di un pastore sui titoli di coda, mentre chi ha assistito alla proiezione si ripone la domanda che si è fatto il maestro Ermanni Olmi: “La guerra è l’atto più stupido che l’uomo possa compiere. Com’è possibile che non l’abbiamo ancora capito?” Purtroppo conosciamo la risposta perché le guerre c’erano e ci saranno sempre.
L’errore che non va commesso è di catalogarlo come un film semplicemente pacifista e soprattutto antimilitarista, perché Olmi non punta l’obiettivo solo sulla insensatezza della guerra e sul carrierismo dei suoi generali. Non insegue Kubrick che in “Orizzonti di gloria” ridicolizzava la vanagloria di alti ufficiali che decidevano seduti comodamente dietro una scrivania le sorti di migliaia di uomini mandati al massacro ed emettevano sentenze di condanna esemplari per dar l’esempio. Non insegue Francesco Rosi che invece in “Uomini contro” mostrava, tramite lo sguardo di un sottotenente inorridito, l’inadeguatezza dei comandanti e degli armamenti del nostro povero esercito, anche se quest’ultimo film gli è parecchio vicino come stile. Ermanno Olmi guarda ai giovani dell’inizio ‘900, guarda ai poveri ragazzi che dopo Caporetto non avevano neanche diciotto anni e furono chiamati lo stesso per partire per il fronte del nord-est sugli Altipiani. Il suo occhio si posa per noi e ci racconta di quella vasta umanità di giovani, padri di famiglia, contadini, pastori, muratori, stanziare giorni e giorni in quel braccio della morte chiamato trincea, in attesa di un comando dei superiori e dei colpi di cannone e di mortaio degli austriaci. Fuori solo freddo e neve, tanta neve, metri di neve, ma non calpestabile: appena metti fuori il naso parte la fucilata degli infallibili cecchini e la guerra per te finisce e si ferma anche la tua gioventù.

Il regista li inquadra inerti, stesi su quei letti a castello di legno grezzo, affamati e in attesa di qualcosa che non avviene mai. Si comportano come moribondi che aspettano la morte, con la speranza di ricevere conforto da una lettera dei familiari con la posta che arriva col rancio e invece ecco che arriva l’ordine dal comando di mandare uomini per prendere possesso di un rudere in realtà irraggiungibile, come se gli ufficiali del Comando Supremo stiano giocando una partita di scacchi già persa e utilizzino quei soldati come pedine in mosse disperate. Ma nessuno dei fanti vuole muoversi, meglio restare lì dentro, nella striscia di terra sottoterra sperando che i colpi di cannone risparmino la maggior parte di loro: fuori, sull’erba abbondantemente coperta dallo spesso manto di neve, la morte è certa, fino al punto che c’è chi, pur di non morire per mano del nemico austriaco, preferisce puntarsi sotto la gola il moschetto e premere il grilletto. E trovare finalmente la pace, la pace mentale simile a quella della natura che regnerebbe regina assoluta e benefica tra quegli altipiani ricchi di vegetazione sempreverde. La pace che i soldati ritrovano solo nei ricordi dei giorni passati vicino alla moglie, fidanzata, madre, o con il lavoro che pur se faticoso almeno serviva a restare vivi e liberi. È povera gente, come tutta la gente che Olmi ha fotografato nella sua luminosa carriera: sono gli stessi contadini de L’albero degli zoccoli, Il villaggio di cartone, Il posto, I recuperanti.

Fa bene il regista a parlarci di loro e della mostruosa guerra a cui li hanno chiamati a combattere, perché altrimenti si correrebbe il rischio di dimenticare l’immane tragedia che è stata la Grande Guerra, proprio come ha fatto suo padre con lui quando gliela raccontava da bambino. Dimenticare non fa bene, non serve all’umanità. È proprio questa la paura di Olmi, che si dimentichi tutto. Se le trincee vengono riempite di terra, torna la vegetazione a coprire tutto, anche la memoria. Tornano i prati e di quei giovani non ci sarà più traccia.

Regia ferma e asciutta, la sua, senza svolazzi, perché concreta fino all’essenziale, facendo parlare solo le facce inespressive e inebetite dei fanti. Film semplicemente esemplare, da portare nelle scuole, film necessario.
Due annotazioni sono da aggiungere perché il valore aggiunto lo danno due nomi del cast: la appropriata e appassionata musica di Paolo Fresu che alimenta inevitabilmente la commozione dello spettatore e la straordinaria fotografia di Fabio Olmi, figlio di Ermanno, che caricando di grigio le immagini le fa virare a seppia tanto che sembra di sfogliare un vecchio album di foto dei nostri nonni e bisnonni. I ragazzi dell’99, appunto.
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