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Triangle of Sadness (2022)


Triangle of Sadness

USA/Svezia/UK/Germania/Francia/Turchia/Danimarca/Grecia/Svizzera/Messico 2022 dramma 2h27’


Regia: Ruben Östlund

Sceneggiatura: Ruben Östlund

Fotografia: Fredrik Wenzel

Montaggio: Ruben Östlund, Mikel Cee Karlsson

Musiche: Mikkel Maltha, Leslie Ming (supervisori)

Scenografia: Josefin Åsberg

Costumi: Sofie Krunegård


Harris Dickinson: Carl

Charlbi Dean: Yaya

Woody Harrelson: cap. Thomas Smith

Vicki Berlin: Paula

Henrik Dorsin: Jorma Björkman

Zlatko Burić: Dimitrij

Jean-Christophe Folly: Nelson

Iris Berben: Therese

Dolly de Leon: Abigail

Sunnyi Melles: Vera

Amanda Walker: Clementine

Oliver Ford Davies: Winston

Arvin Kananian: Darius

Carolina Gynning: Ljudmila

Ralph Schicha: Uli

Camilla Läckberg: se stessa


TRAMA: Carl e Yaya, una coppia di modelli, vivono l'entusiasmo della Settimana della Moda di Milano prima di partire per un'esclusiva crociera a bordo di uno yacht nei Caraibi. Mantenuta in maniera impeccabile, l'imbarcazione è pilotata da un capitano di mare marxista e stravagante. La vacanza prende però una piega del tutto inattesa a causa di diversi eventi che si susseguono, da un'intossicazione alimentare a un attacco di pirati. Giunti su un'isola deserta, Carl, Yaya e i pochi altri passeggeri sopravvissuti dovranno abituarsi a vivere sotto le regole di un nuovo leader di gruppo: una cameriera filippina di mezza età.


Voto 8

Tre capitoli, tre spezzoni parecchio differenti tra loro ma quasi sempre con gli stessi personaggi, principalmente i due giovani, belli e moderni: lei modella già affermata e lui all’inizio della carriera, molto presto apprezzato dai selezionatori per il suo modo di muoversi.

1: Carl e Yaya

2: Lo yacht

3: L’isola.

Questa è la suddivisione della trama, che – forse è un azzardo affermarlo – non ha, secondo me, l’importanza portante che normalmente ha in un film (dico normalmente perché spesso i grandi autori la usano solo come pretesto di una logica ben più ampia): il micidiale svedese Ruben Östlund, come ha quasi fatto nei due film precedenti, usa la trama, degna di un thriller, esclusivamente per un suo personale (e condivisibile?) discorso basato sulla rivalsa rivolta al ceto ricco di tutto il nostro pianeta. Se in Play stava ad osservare le reazioni emotive della gente comune per i raid compiuti da giovani di colore nella città di Göteborg, se in Forza maggiore provocava e stuzzicava le reazioni nei legami di affetto e parentela nei nuclei atterriti da un pericolo incombente ed evidente, se in The Square suscitava disagio allo spettatore mentre guardava le scorribande di un uomo simil homo erectus in mezzo ai tavoli della cena di un museo e le azioni incaute del suo direttore nella vita privata, qui la lama affilatissima del suo coltello-cinema affonda e squarcia la carne dell’eccessivo benessere.

Quante volte si parla e si scrive del cinema che vuol provocare (spesso banalmente) ma lo si dice a vanvera? Tantissime! Sono rari i grandi autori (Buñuel, Ferreri, per fare un paio di nomi, ma anche qualche Von Trier, con Idioti) che spingono sul pedale della sfida con tanto di spirito offensivo per distruggere i luoghi comuni e il pensiero dei benpensanti. Ecco, da qualche anno il cinema internazionale ha un altro egregio nome da citare: Ruben Östlund. Se prima, come citato, ha provato gusto, nonostante tutto e con un certo grado di autocontrollo a provocare le reazioni del pubblico, con questo titolo non si ferma davanti ad alcun ostacolo morale ed etico pur di raggiungere lo scopo che si è prefissato: mettere alla berlina i riccastri della società contemporanea. Per giunta con un sadismo che raramente si riscontra nell’arte. Sia negli atteggiamenti che nel modo di esprimersi, i personaggi luridi, ricchissimi da far schifo (“I’m a fucking rich!”), sciorinano tutto il loro repertorio invadente, devastante e maleducato, totalmente prevaricatorio, specialmente se messo a confronto con i dipendenti che lavorano sullo yacht su cui si svolge parte del film, che siano hostess e steward, oppure semplici cameriere e manovali è la medesima cosa.

Sì, non è una elementare provocazione, ma sadismo vero e proprio, scagliato con grande godimento artistico e forse personale: è ciò che il regista usa come un’arma per colpire – non uccidere – e per far male, per ridicolizzare l’uomo prepotente che si è ormai convinto di poter comprare qualsiasi cosa sulla faccia della terra, anche i servizi di una persona o i suoi sentimenti: non volete soddisfare il capriccio di una donna nel mentre è seduta nella jacuzzi e beve champagne? Bene, allora il magnate russo (che a suo dire si è arricchito vendendo merda, oh, pardon, shit, nel senso di fertilizzanti puzzolenti) si toglie lo sfizio di accontentarla proponendo di comprare non la cosa pretesa ma l’intera imbarcazione lussuosa (anzi, lussuosissima), con tutto l’equipaggio ed il simpaticissimo comandante perennemente ubriaco. Fenomenale la sequenza tra i due, unici reduci della cena in cui tutti i passeggeri vomitano l’uno sull’altro (intossicazione alimentare? mal di mare?), quando si citano a vicenda aforismi dei più celebri personaggi letterari e storici (Mark Twain, Kennedy, Marx…) ed il russo Dimitrij (l’impareggiabile Zlatko Buric) definisce l’incontro con il capitano Thomas Smith (Woody Harrelson) “un russo capitalista ed un americano comunista” “su uno yacht di lusso da 250 milioni di dollari!”, tra un fiume di alcol che sembra non finire e non sfinirli mai.

Nella prima parte lo sguardo è rivolto al mondo delle passerelle di alta moda. Dove la affermata modella e influencer Yaya (Charlbi Dean) frequenta dopo il lavoro l’aspirante modello Carl (Harris Dickinson), sapendo che sono stati premiati con una crociera tra persone molto agiate (inventori, industriali, titolari di brevetti informatici per APP, produttori di armi, e via dicendo) su un enorme, sontuoso e magnifico yacht (il regista ha potuto utilizzare il Christina O, di Onassis!) senza immaginare a quale destino stavano andando incontro. Il secondo capitolo è dedicato alla esposizione dei caratteri dei supponenti, antipatici, prepotenti personaggi imbarcati nel viaggio nautico, le loro pretese, lo sfarzo dell’imbarcazione, l’efficienza dell’equipaggio (basterà una gelosa osservazione del giovane Carl per far licenziare su due piedi un marittimo), il menù di alta cucina, le amicizie che nascono a bordo. La terza parte è quella decisiva per il film: dopo le orrende (bellissime!) scene del malore di tutti i passeggeri (la scena si tinge di marrone…) e un inaspettato assalto da parte di pirati con conseguente esplosione a bordo, ecco il naufragio. I pochi superstiti (tra cui Yaya, Carl, la capo hostess Paula, Dimitrij, Jorma, ma soprattutto Abigail) si ritroveranno su un’isola sperduta in chissà quale posto del globo e come tutti i naufraghi si devono arrangiare per sopravvivere con quello che passa la natura, sperando nei soccorsi, mentre il tempo, invece, passa inesorabilmente.

Ecco il mondo capovolto, dove i ceti non contano più, dove i miliardi di euro, di rubli, di dollari e di sterline sono irraggiungibili e non servono più a niente, dove la società assume altri connotati, basata sull’uguaglianza e sull’aiuto reciproco, pena il fallimento dell’organizzazione e la fine prematura della coesistenza. E forse anche della vita. È l’occasione non solo della piattezza sociale ma anche cambio della scala sociale, perché il più intelligente, chi sa meglio adattarsi e che ha più spirito d’iniziativa e sa risolvere i problemi di sussistenza e sopravvivenza diventa inesorabilmente il capo, il comandante della ciurma e ricatta tutti gli altri alla obbedienza per essere sfamati. E non solo: anche al servizio sessuale, perché questa persona – ironia della sorte, anzi, vendetta dell’autore – è tra le ultime della scala gerarchica dello yacht. Abigail (Dolly de Leon), una delle donne di servizio, arriva sulla spiaggia con una scialuppa di salvataggio di plastica completamente chiusa, la più efficiente di tutte, ed è capace di pescare a mani nude e dar da mangiare a tutti, specialmente a chi sceglie di portarsi la notte nella sua imbarcazione-camera. Il prescelto è ovviamente il più bello, il più giovane e aitante Carl, il quale si adegua per avere in cambio cibo per sé e per la delusa Yaya.

Il finale è anche più sorprendente, nell’attesa che quei superstiti si salvino o meno. Che l’ascesa al potere, momentaneo e in quel luogo, di Abigail oramai si sia consolidato è assodato, ma che un’escursione sull’isola condotta da lei e Yaya, che si allontanano in una delle tante giornate interminabile e monotone, alla ricerca di cibo, diventi l’occasione terminale per farsi giustizia della supremazia subita fino a quel giorno da parte dell’ex umile inserviente è davvero sconcertante, ma pienamente in tema con il sadismo imperante diffuso da Östlund. Il quale, ovviamente, per non smentirsi, ci lascia nel dubbio più totale, mostrandoci solo, nell’ultima sequenza, la corsa affannosa di Carl che ha intuito il tranello teso alla sua ragazza. Riuscirà ad arrivare in tempo? Non ha importanza, come del resto la trama, unico vero spunto per arrivare al cuore delle reali intenzioni del regista.

Cattiveria, sadismo, satira sociopolitica, comicità grottesca, provocazione sociale a piene mani, questo è il vero scopo a cui attinge l’autore per sparigliare la lotta di classe e dare una mazzata definitiva all’insopportabile genere umano che si arricchisce a spese dei simili, producendo anche armi e alimentando non solo la guerra tra i poveri ma anche quella vera, subendo l’onta da parte dell’ONU che proibisce la produzione e il commercio delle mine antiuomo. E che maniere! E come fa un produttore che ha puntato tutto sugli armamenti che funzionano a rilascio di pressione? Senza dimenticare molte frecciate al mondo degli influencer, così tanto di moda e che guadagno moltissimo scrivendo di nulla e postando foto da ogni luogo frequentato. Ma non dall’isola dispersa nell’oceano. E che soddisfazione sarà stata per il regista filmare donne ingioiellate d’oro e di diamanti vomitarsi addosso o scivolare sulle scale sporche di conati ed escrementi! Mentre chi sta un pochino meno peggio siede sconsolato in camera riflettendo sulla propria inutile esistenza. Se lo scopo del film era provocare disgusto e sdegno, antipatia e reazioni di vario livello, ebbene Ruben Östlund centra in pieno l’obiettivo e se si apprezza il suo metodo si accetta anche il suo cinema e questo film in particolare, scritto con molta intelligenza e colorando a forti tinte le personalità dei vari personaggi, dedicando ad ognuno dei più importanti il tempo necessario per non equivocare sul loro carattere e le loro tendenze. Il film difatti non dura poco ma neanche ci si accorge della lunghezza: ogni scena ha la sua rilevanza e si resta sempre sul filo del rasoio non potendo mai immaginare come vada a finire. Perché, in fondo, la questione principale è che lui non crede per nulla nel genere umano. Questa è arte!

Fatto sta che questo regista ha bissato, dopo The Square, la Palma di Cannes, risultato che solo pochissimi possono vantare: Sjöberg, Coppola, Imamura, Kusturica, August, Dardenne, Haneke, Loach. Non è poco. Inoltre, ha diretto benissimo tutto il cast: ammirevoli, in particolare, la prestazione del buon Harris Dickinson, ma anche della quasi sconosciuta Charlbi Dean, dando a Woody Harrelson la possibilità di un personaggio perfetto per le sue caratteristiche. Simpaticissimo Zlatko Burić e molto riuscita è l’apparizione della filippina Dolly de Leon, da noi praticamente ignota ma molto performante, bravissima, la migliore.

Regia formidabile, implacabile, cinica, geniale, che ricava il titolo quando, durante la selezione dei modelli a cui viene chiesto di mostrare diverse espressioni a seconda dei marchi che indosseranno, richiedono facce tristi oppure sorridenti rasserenando le rughe che si formano tra le sopracciglia, il triangolo, appunto, della tristezza. Perfettamente in linea con le tonalità tematiche dell’opera sorprendente di un regista che sicuramente non ha finito di stupirci. Ha appena iniziato.

Elogio a parte per la scelta dei brani che stampano più forte nella mente le varie scene: tra quelli classici e quelli modernizzati, non c’è sosta neanche per distrarsi. Semplicemente perfette e a tema.


“Siamo messi male, siamo messi molto male!”. Infatti.

Riconoscimenti

2023 – Premio Oscar

Candidatura al miglior film

Candidatura al miglior regista

Candidatura alla migliore sceneggiatura originale

2023 – Golden Globe

Candidatura al miglior film commedia o musicale

Candidatura alla migliore attrice non protagonista a Dolly de Leon

2022 – Festival di Cannes

Palma d'oro

Premio AFCAE


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