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Un 32 août sur terre (1998)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 15 set 2022
  • Tempo di lettura: 5 min

Un 32 août sur terre

Canada 1998 dramma 1h28’


Regia: Denis Villeneuve

Sceneggiatura: Denis Villeneuve

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Sophie Leblond

Musiche: Nathalie Boileau, Robert Charlebois, Pierre Desrochers, Jean Leloup

Scenografia: Jean Babin

Costumi: Suzanne Harel


Pascale Bussières: Simone

Alexis Martin: Philippe

Serge Thériault: automobilista

Richard S. Hamilton: taxista

Emmanuel Bilodeau: amico di Philippe

Paule Baillargeon: dottoressa

Frédéric Desager: Stéphane

Evelyne Rompré: Juliette


TRAMA: Dopo essere sopravvissuta a un terribile incidente, a 26 anni Simone mette in discussione la sua vita. Lascia il lavoro e va a cercare Philippe, il suo migliore amico, per chiedergli di avere un bambino insieme. Alla fine l’uomo accetta, ma a condizione che il concepimento avvenga nel deserto.


Voto 7

Dopo aver visto (e inevitabilmente scritto) tutti i film di Denis Villeneuve, tranne appunto questo agognato esordio, fino a poterlo raggiungere (finalmente!), trovo conferma che, sin dalla prima opera, il regista québécois ha filmato, fatto parlare e messo al centro dell’obiettivo della sua macchina da presa la donna, quasi sempre protagonista delle sue trame. Dopo questo film, dal titolo spiazzante ma soprattutto paradossale, ci parlerà della Bibiane di Maelström e poi anche della Valérie di Polytechnique e via dicendo per tutti gli altri film (vedi la bellissima figura della Louise Banks di Arrival), facendo obbligatoriamente sosta mentale su quella più importante della sua carriera di autore e anche più complessa e ricca di drammaticità: la Nawal Marwan di La donna che canta, che è quel meraviglioso film che lo ha fatto conoscere ed affermare in tutto il mondo. Nessuna figura femminile può raggiungere l’apice di quella donna araba. Anche qui, quindi, ce n’è una che determina e fa da filo conduttore nell’esordio del 31enne Villeneuve. È il 32 di agosto (!) quando, nell’incipit che similmente si riproporrà nel secondo film, una ragazza, Simone, è alla guida dell’auto nel buio della notte e chissà per quale motivo non riesce a stare sveglia: sarà la stanchezza o i bagordi di una serata allegramente alcolica, non si sa, certo è che, accusando stanchezza, perdita di lucidità e assopendosi pure, perde il controllo della macchina ed esce fuori strada, risvegliandosi quasi capovolta e insanguinata all’alba, auto da cui esce con grande difficoltà. Non ha investito alcuno, come in Maelström, anzi nonostante sia spaventata e mezza intontita dal trauma, nell’ospedale ha un risveglio psicologico, un momento di riflessione esistenziale: si accorge che, seppur ancora giovane, il tempo sta passando e non ha una relazione stabile ma soprattutto non ha dedicato ancora l’attenzione ad avere un figlio e allora si ripromette di farlo quanto prima: dovesse capitarle di nuovo un incidente o un accidente non avrà più l’occasione.

E a chi rivolgersi se non al suo miglior amico Philippe? Sarebbe l’uomo ideale, perché sa che le vuole bene ed anche lei, senza mai ammetterlo neanche a se stessa, non ha mai smesso di ricambiare un certo sentimento. Ma si sa, l’amicizia a volte frena gli istinti amorosi e si tira a campare atteggiandosi da sinceri amici per la pelle. Lei lo provoca sull’argomento faticando per trovare le parole giuste e lui di rimando le propone un patto assurdo e invece di mandare tutto all’aria, le due - chiamiamole così - mozioni vengono accettate quasi come una sfida e partono per gli USA, per il deserto di Salt Lake, il lago bianco di sale nello Utah. Una distesa di un biancore accecante che esalta ancor di più la bizzarra avventura dirigendo la trama verso il sentimentale grottesco, con il gioco di evitare ogni sintomo di tenerezza che casomai potesse scoppiare tra i due. Perché, a furia di nascondere i propri reali sentimenti, l’amore potrebbe esplodere davvero da un momento all’altro. Ed invece continuano a punzecchiarsi. I giorni statunitensi passano anche se hanno entrambi fretta di tornare alle proprie attività nel Canada e il calendario, già partito in maniera anomala, continua il suo conteggio: 33 agosto, 34, 35 e così via, fino a quando dovrà fare un salto in avanti, stavolta nei primi giorni di settembre, in cui invece le giornate canadesi di Simone sono lente, vuote e solitarie con il mancato partner della vita che giace in coma su un letto di ospedale da cui sicuramente non si alzerà mai più. No, non è spoiler, perché il film non è un thriller, è una storia d’amore mai realizzata e che avrebbe potuto prendere la giusta piega e ora è solo il momento sbagliato, quando non si può più rimediare. Qualche giorno prima una lettera d’amore su un pezzo di carta arrangiato nell’aeroporto dotato di posti letto da fantascienza, qualche giorno dopo una risposta altrettanto romantica a voce, in un orecchio che probabilmente non riesce a udire. Con il rimpianto di un’ora d’amore mai realizzata e di un conseguente concepimento sempre rimandato per piccoli dispetti o mancata coincidenza di disponibilità di uno dei due. E ora restano solo i rimpianti per un amore vero mai dichiarato del tutto. Eppure, ci è mancato un nonnulla.

Storia giovanile e scherzosa, anche se Simone e Philippe non sono più giovani, scritta tra leggerezza e malinconia, tra appagamenti temporanei e inquietudini susseguenti, che il giovanissimo Denis Villeneuve traccia con la precisione di un architetto per una trama da commedia a tratti surreale e sensuale che si trasforma in nero come il buio di una notte maledetta di una Montreal troppo deserta. La regia esordiente è già pronta per il grande salto, la qualità del regista è evidenziata come una parola colorata nel grigiore generale, l’occhio della sua cinepresa è rivelatorio, con i primi campi profondi che lo renderanno celebre: l’infinita distesa di sale, la lunga e dritta statale americana, lunga come una vicenda sentimentale che dura anni ma è come sia nata solo da qualche giorno, il tempo di realizzarla mentalmente al ritorno dallo Utah.

Cinema già maturo, femmineo e femminista, che guarda oltre le immagini. Sempre bellissime ed importanti per il regista, che non trascurerà mai, nel futuro, ciò che l’occhio vede e la mente dello spettatore non riesce del tutto a capire subito. Concetto che troverà terreno fertile nel film più ostico e ermetico che affronterà nel 2013 con Enemy, prodotto misterioso che richiede più visioni per essere pienamente e meritatamente apprezzato. Se il regista è già grande, enorme è la sorpresa per la scoperta di Pascale Bussières e Alexis Martin, simpatici, ribelli e belli a modo loro (lei specialmente), che danno colore e umori a due personaggi al limite del naïf, caratterizzati dalla spregiudicatezza e dalla felicità effimera, ma differenti: Simone indipendente e imprevedibile, Philippe posato e riflessivo. Sensazioni e caratteri che i due riescono a regalarci con apparente facilità perché si rivelano due gran bravissimi interpreti. Lei, capelli corti, pare una copia di Jean Seberg, il cui poster campeggia nella camera dell’amico; lui che invece sembra il fratello di quella faccia da schiaffi di Romain Duris.

La carriera di un grandissimo autore di cinema (il mio personale genio, il mio punto principale di riferimento, come ben sanno i miei pochissimi lettori) inizia così, con un film eccellente.


 
 
 

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Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

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