Vermiglio
Italia/Francia/Belgio 2024 dramma 1h59’
Regia: Maura Delpero
Sceneggiatura: Maura Delpero
Fotografia: Michail Kričman
Montaggio: Gian Luca Mattei
Musiche: Matteo Franceschini
Scenografia: Vito Giuseppe Zito, Pirra
Costumi: Andrea Cavalletto
Giuseppe De Domenico: Pietro Riso
Martina Scrinzi: Lucia
Tommaso Ragno: Cesare Graziadei
Carlotta Gamba: Virginia
Roberta Rovelli: Adele
Orietta Notari: zia Cesira
Patrick Gardener: Dino
Anna Thaler: Flavia
Luis Thaler: Tarcisio
Simone Bendetti: Giacinto
Santiago Fondevila: Attilio
Rachele Potrich: Ada
Sara Serraiocco: moglie di Pietro
TRAM: In Trentino, a metà degli anni 40, le tre sorelle Lucia, Ada, Flavia abitano con i fratelli in un piccolo paese sperduto in montagna. Non più bambine, ma non ancora donne, vengono private della loro innocenza quando, agli sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale, un soldato sconosciuto arriva in fuga dai campi di battaglia.
Voto 8
Tra la Lombardia e il Trentino, nei pressi del Passo del Tonale, Vermiglio è un piccolo comune che al tempo della storia aveva un migliaio di abitanti, una comunità che si era resa autonoma nella sussistenza e nell’istruzione dei bimbi e dei giovani, come nel culto della religione, ancor più per l’isolamento invernale a oltre 1.200 metri di altitudine. Gente semplice che parla in dialetto solandro e con pochissima preparazione scolastica alle spalle, famiglie numerose dedite al lavoro nei campi e nell’allevamento di qualche mucca, essenziale per fornire il latte, nutrimento principale per la crescita dei numerosi bambini. Come la famiglia Graziadei: papà Cesare, insegnante dell’unica classe che ogni mattina raduna dai bimbi ai giovanotti e di sera i pochi anziani che vogliono migliorare almeno la scrittura e la lettura; la mamma Adele (Roberta Rovelli) sempre incinta e uno stuolo di figli, otto con l’ultimo arrivato. Tra loro Lucia (Martina Scrinzi), la maggiore, che bada a governare e mungere la vacca il cui latte, come si vede in una delle prime scene, viene distribuito appena bollito a tutti ogni mattino.
Negli ultimi tempi c’è una certa agitazione perché un giovane soldato siciliano, Pietro Riso (Giuseppe De Domenico), si è lì rifugiato scappando dalla guerra ormai al termine, portando sulle spalle per un lungo tragitto il cugino di Lucia, Attilio, che ha rischiato di morire ma salvato dal compagno. È quasi un eroe per il gesto compiuto ma essendo meridionale non è ben visto soprattutto dagli anziani (“Quelli che tornano dalla guerra hanno i segreti”), ma è stato ben accolto dai Graziadei. Proprio nell’ambito della famiglia non tarda a nascere una certa empatia tra il giovane taciturno e dal viso triste e la bella Lucia, che anzi prende subito l’iniziativa per stimolare la sua attenzione verso, fino al punto di frequentarsi segretamente e a lui concedersi con la promessa di un matrimonio immediato.
Potrebbe essere questa la dorsale del film, e lo è, in effetti, ma la prima parte è dedicata dalla regista alla figura centrale del severo e austero padre e maestro, di vita e di istruzione scolare, Cesare (Tommaso Ragno), uomo riflessivo, che ha un compito gravoso: quello di figura paterna in generale, dato che la guerra s’è portata via una intera generazione, che è, di fatto, assente. Ci sono le donne, gli anziani e i bambini. La fetta di mezzo è un buco umano e umanitario e gli adolescenti, Dino in particolare, non hanno un esempio da seguire o imitare, tanto da farlo diventare un giovane ribelle e incompreso, che vede nel primo bicchiere di vino concessogli dal padre un segno di maturità. Poi, come sempre è accaduto tra le generazioni attigue familiari, non manca l’attrito che li dividerà. Sono tante le sequenze con il maestro al centro dello schermo: nella scuola in cui insegna, ai figli e a quelli degli altri, nozioni elementari e pillole di saggezza, piccoli consigli di vita affinché non restino completamente fuori dal mondo. Perché il rischio è proprio quello, isolati come sono, specialmente nei lunghi mesi innevati dell’inverno. Ma nel tempo libero queste fanciulle si occupano di faccende limitate e domestiche, in particolare c’è Ada (Rachele Potrich) che è una ragazzina rapita dal senso fanatico religioso (pur capendone poco) e si dedica come rapita alla preghiera e alle penitenze, sentendosi sempre nel peccato, ma si dedica morbosamente alle foto osé che il padre conserva in un cassetto. E poi c’è Virginia (Carlotta Gamba), la ribelle che pare una svitata, sempre a fumare di nascosto e che tenta come una diavoletta lo spirito di Ada.
Il matrimonio, per la felicità del paese, viene celebrato, Lucia è incinta (già da prima) e Pietro viene spinto a primavera a rifarsi vivo presso i suoi parenti, che, finita la guerra, potrebbero pensare che sia morto in battaglia. Lui parte con la promessa di rientrare almeno prima del battesimo. Ma non se ne ha più notizie. Mai più. Fin quando giunge quella ferale, che manda in depressione la giovane donna, vicina al rifiuto del bimbo partorito e al suicidio. Salvata dal fratello, capisce che è il momento che si rechi di persona in Sicilia a constatare la realtà.
In principio era “La sposa di montagna”, è diventata Vermiglio, come il nome del paese in cui era nato il padre Delpero e a cui vanno con i ricordi il pensiero e la scrittura di Maura, tornando fisicamente e affettivamente ai luoghi di origine, per una storia corale, intima, personale e genealogica oltre che familiare. Una storia per un cinema personale radicata nel suo ambiente, che scaturisce più o meno direttamente dalla terra, dai torrenti, dagli alberi. Dal latte caldo e dalla essenzialità dei mezzi di sostentamento: unica eccezione i dischi di musica classica che il patriarca si concede contro il parere della moglie che gli fa presente altre priorità di spesa. Quindi, non è la storia di un paese nonostante il titolo, ma di una famiglia che vede tante donne, grandi (madri e zie) che tirano avanti la casa e fanno figli senza pausa, e quelle piccole, piene di fantasie e di curiosità, di domande ingenue, che dormono in tre per letto. Il racconto procede con il ritmo della crescita e della natura, molto assimilabile a Ermanno Olmi e alla veridicità e la trasparenza dello sguardo, sia per merito dell’uso continuo del dialetto - che induce spesso il maestro a rimproverare gli alunni grandi e piccini – che per le incantevoli inquadrature di un paesaggio intatto che richiama la pittura del Simbolismo, corrente che utilizza la natura come allegoria per esprimere riflessioni e messaggi profondi. Ecco dove risiede l’unione artistica tra la scrittura e lo sguardo della regista.
Maura Delpero ha, infatti, una veduta e uno stile naturale e genuino, che fa assistere al film in quasi assoluto silenzio, uguale a quello a cui noi assistiamo alle immagini sullo schermo dove la trama si sviluppa per lunghi tratti senza alcun commento musicale. Silenzi che vengono interrotti dai Notturni e i Preludi di Chopin e dalle Quattro stagioni di Vivaldi, che il maestro dovutamente spiega agli alunni, e che corrispondono alle quattro fasi dell’anno in cui avvengono i fatti narrati. Silenzi interrotti dal pianto di un neonato all’inizio del film, come quello del finale, anche se di due bimbi diversi: il primo è dell’ultimo fratellino di Lucia e l’ultimo di suo figlio, che lei - chiamata come la Mondello manzoniana dal matrimonio ostacolato - lascia in custodia in un orfanatrofio per andare a lavorare al servizio in una famiglia benestante in città, a valle, con l’intenzione di riprenderselo appena possibile. Comunque, un silenzio confortante, quello della Natura che ammanta i boschi e le fredde case, e la stalla della bestia e delle galline, della piccola chiesa e dell’unica aula della scuola. Intorno, solo neve, bianca come i folti capelli del padre-maestro, rattristato per la sfortuna capitata in famiglia. Avevano forse ragione gli anziani dell’osteria a diffidare di uno sconosciuto? Ma che avevano anche torto a giudicarlo un traditore: “Se ci fossero più vigliacchi non ci sarebbero più guerre. La vigliaccheria è un concetto relativo” li riprende Cesare.
Opera schietta, sincera in modo lampante, che Maura Delpero portava in seno come un figlio: “Mio padre ci ha lasciati un caldo pomeriggio d’estate. Prima di chiuderli per sempre, ci ha guardati con occhi grandi e stupiti di bambino. L’avevo già sentito che da anziani si torna un po’ fanciulli, ma non sapevo che quelle due età potessero fondersi in un unico viso. Nei mesi a seguire è venuto a trovarmi in sogno. Era tornato nella casa della sua infanzia, a Vermiglio. Aveva sei anni e due gambette da stambecco, mi sorrideva sdentato, portava questo film sotto il braccio: quattro stagioni nella vita della sua grande famiglia.” Una storia di bambini e adulti, tra morti e parti, delusioni e rinascite, del loro tenersi stretti nelle curve della vita, che da collettività porta a farsi individui. Compito, quest’ultimo, che Cesare Graziadei ritiene suo dovere principale, suo compito nella vita, sua responsabilità, fino ad essere severo più con i suoi figli che con quelli degli altri, che lui promuove sempre. Opera anche di profonda formazione, dove ogni piccolo personaggio, specialmente femminile (questo è un film al femminile!), vive, pur nelle diverse età, il problema della crescita e delle scelte: chi intraprende la strada del collegio per studiare in quanto la più brava, chi in convento a servire Cristo, chi deve liberarsi dal presente disgraziato senza però perdere il figlio, che è sempre carne della propria carne.
La regista è palesemente genuina, come il suo film, e segue il magistero di Ermanno Olmi fotografando un mondo che pare lontano ma che ha la dolcezza e la poeticità del cinema contadino e quindi una sua umile sacralità, costruito sui ritmi della Natura e dalle sue regole. E che non esiste più è tutto da discutere: se si guardano oggi i servizi e i documentari della trasmissione televisiva Geo, si vedono ancora persone che vivono, con la corrente e internet, ancora legati al territorio e alla terra, agli animali e alle piante. Dove, come nel film, la figura dell’uomo è parte integrande del paesaggio, come una sua componente, una continuità di immagine. L’effetto ottenuto intelligentemente dalla regista è ancor più positivo in quanto la stragrande maggioranza degli attori (diciamo pure delle attrici) è sconosciuta e l’unico interprete importante, pesantemente importante, è Tommaso Ragno, il quale ha apportato tutta la sua maestria di attore teatrale, assurgendo a pater familias nella trama e sul set. È enorme l’effetto, infine, del dialetto solandro, parte integrante per dipingere in maniera esaustiva quel mondo dando autenticità al film.
Che è bellissimo e riempie il cuore. Notevole Martina Scrinzi.
Riconoscimenti
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Candidatura al miglior film in lingua straniera
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Leone d’argento - Gran premio della giuria
Green Drop Award
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