Volevo nascondermi
Italia 2020 biografico 2h
Regia: Giorgio Diritti
Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Tania Pedroni
Fotografia: Matteo Cocco
Montaggio: Paolo Cottignola, Giorgio Diritti
Musiche: Marco Biscarini, Daniele Furlati
Scenografia: Ludovica Ferrario, Alessandra Mura
Costumi: Ursula Patzak
Trucco: Aldo Signoretti, Lorenzo Tamburini, Giuseppe Desiato
Elio Germano: Antonio Ligabue
Oliver Ewy: Ligabue da giovane
Leonardo Carrozzo: Ligabue da bambino
Pietro Traldi: Renato Marino Mazzacurati
Orietta Notari: madre di Mazzacurati
Fabrizio Careddu: Ivo
Andrea Gherpelli: Andrea Mozzali
Denis Campitelli: Nerone
Filippo Marchi: Vandino
Maurizio Pagliari: Sassi
Francesca Manfredini: Cesarina
Daniela Rossi: madre di Cesarina
Mario Perrotta: Raffaele Andreassi
Paolo Dallasta: Erminio Canova
Gianni Fantoni: Antonini
Paola Lavini: Pina
TRAMA: Il racconto della vita di Antonio Ligabue, pittore naif e immaginifico che dipingeva tigri, gorilla, leoni e giaguari vivendo negli sconfinati pioppeti delle golene del Po. Una vita di durezze che è allo stesso tempo una fiaba: la storia di Toni, un bambino solo ed emarginato che, grazie all'incontro con lo scultore Renato Marino Mazzacurati, trovò nella pittura una forma di riscatto per esprimersi e farsi amare dal mondo.
Voto 8
Antonio Ligabue fu un essere speciale trattato come una sottospecie. Antonio Ligabue, quello del film, è fatto a strati, come altri ma più degli altri: è un corpo non perfetto, un po’ deforme; è una mente disturbata; ha un talento così potente che lo sovrasta.
Sin da piccolo, nato nella Svizzera tedesca e cresciuto in una famiglia poverissima che non capisce la necessità e le esigenze di quel bimbo già rachitico sin dai primi anni di vita, viene maltrattato sia in famiglia (cambiò il suo cognome ufficiale di Laccabue per il rancore che portò verso un violento padre adottivo) che da chi lo circondava, persino a scuola, da cui fu espulso per lo spirito ribelle che lo animava.
Le pessime condizioni in cui fu costretto a crescere contribuirono sicuramente ad aggravare le sue problematiche psichiche, spingendolo a reazioni a volte violente che - dati il momento e la politica dello stato fascista che tendeva a nascondere le persone non omologate all’idea dei tempi, una volta adottato da una famiglia nella pianura padana emiliana – ancor più lo allontanavano dalla gente. I ragazzini lo prendevano in giro, era deriso da tutti, era considerato un giovane pericoloso. Tutto concorse non solo al suo peggioramento ma anche al mancato aiuto affettivo e sociale di cui aveva bisogno, che avrebbe senz’altro favorito un’esistenza migliore.
La sua ancora di salvezza fu l’enorme talento di cui era dotato, un’esplosione di colori che esprimeva con una tela, un pennello e una tavolozza in mano. Tra un ricovero e l’altro nei manicomi, tra una degenza e l’altra per le sue affezioni fisiche, i suoi quadri esprimevano sensazioni e sentimenti repressi, cercati, mancanti: tutto ciò che non riusciva ad esprimere con parole e verso le altre persone diveniva pittura o scultura. Senza aver bisogno di modelli da studiare o da copiare, senza alcuna scuola artistica, la sua prodigiosa memoria visiva si realizzava in numerose opere, spesso prodotte in notevole quantità in poco tempo: tutto ciò che riusciva a osservare nella vita campestre che conduceva, solitario in una capanna nei pioppeti nebbiosi della pianura, diventava un’opera piena di colori e sensazioni. Colori forti, soggetti spesso di animali a riposo ma soprattutto in atteggiamenti aggressivi, così come gli capitava nella vita. Solo chi intuì la peculiarità e la eccezionalità dei suoi quadri lo aiutò e lo instradò nella vera carriera artistica, fino ad organizzare opportune mostre, con cui diventò addirittura benestante, con tanto di automobile con autista.
Il titolo del film mi ha incuriosito sin dal primo momento e mi ha notevolmente intenerito: perché Ligabue voleva nascondersi, mi chiedevo. Ebbene, Giorgio Diritti, tramite un attore strepitoso, di cui spesso ci si dimentica ma che è capace di performance al livello dei più grandi al mondo, Elio Germano, ci spiega questa vita difficile eppure meravigliosa. Quella di un uomo su cui la natura infierì per alcuni aspetti ma che regalò alla sua mente travagliata una dote che solo pochi esseri umani hanno posseduto: la visione pittorica che porta a mettere sulla tela la personale visione del mondo, con le persone, gli animali (nostrani ed esotici), la vita agreste, la dura vita dei campi. Ma quel mondo che lo circondava lo faceva soffrire e non lo capiva, soprattutto non lo accettava per quello che era. Avrebbe proprio preferito nascondersi agli occhi di tutti. E difatti viveva appartato nel suo mondo, affrescando le pareti della casa come i più grandi pittori della storia dell’arte, dipingendo su cavalletto, producendo statuette senza che nessuno gli avesse mai insegnato la pittura e la scultura. Tutto proveniente dalle proprie capacità espressive, come se avesse studiato da vicino Van Gogh, l’espressionismo tedesco o la scuola dei fauves, il movimento d’avanguardia francese suo contemporaneo. Una espressività così esplosiva che i suoi quadri sembrano urlare dolore e gioia ancora oggi, e perfino quell’aggressività che la società gli aveva sempre chiuso forzatamente nel corpo.
È un film ricco di tante caratteristiche, elementi di riflessione, di episodi ben inquadrati nella società di quel momento storico. Come quando il direttore di uno dei tanti manicomi che lo hanno visto prigioniero lo rimprovera prima di dimetterlo con poca convinzione: “Si dice che non avete un lavoro né una moglie. Non pagate la tassa sul celibato. Non contribuite in alcun modo alla crescita dell’Italia fascista.”, mentre Ligabue lo guarda con la sua espressione attonita di sempre, di chi invece capisce benissimo ma vorrebbe dire “ma di che stai parlando, della mia vita?”. Anzi, l’ambientazione è una degli aspetti meglio riusciti del film, con una discreta ma precisa descrizione della vita padana che tanto ricorda quella de L’albero degli zoccoli, con contadini semplice e con il duro lavoro dei campi. Si spazia dalla Svizzera all’Italia, dalla libertà di una mente ribelle alla tremenda solitudine che il protagonista vive come una condanna ineluttabile, si ascolta dal tedesco dell’infanzia al dialetto emiliano della maturità (“el tudesc”), ma anche la lingua italiana dei medici e dei podestà. E poi c’è tanta, tanta recitazione, sublime recitazione di Elio Germano, il quale, al contrario di altre sue esibizioni caratterizzate da foga gestuale e vocale, quasi da overacting, lavora preciso come un chirurgo, trattenendo la recitazione, quasi in sottrazione, mimetizzandosi nel trucco estetico e nella personalità sfaccettata del pittore naif, mostrando, a parer mio, rispetto per una figura che è rimasta in un alone misterioso per il grosso pubblico, che facilmente ha più dimestichezza con i nomi altosonanti della pittura storica italiana. Ingiustamente. Ma è ovvio che ogni artista esprime ciò che provava intimamente, è poi il mercato che rende più o meno redditizio un nome invece che un altro.
Ad una prima parte più frammentata ed esposta con diversi flashbacks risponde una seconda dall’andamento lineare, dove si segue la maturazione di Ligabue come uomo e come artista, con le sue bizzarrie e la voglia di prendere moglie, la fama conquistata per merito di amicizie disinteressate e le mostre organizzate per far conoscere meglio le sue opere, quadri e sculture, spesso raffiguranti i suoi tipici animali selvaggi e gli autoritratti in cui si inquadrava di fronte ma con lo sguardo rivolto di lato. Superlativo Elio Germano, tanto bravo che oltre ai meritati premi al film riesce a conquistare l’Orso d’Argento al Berlino 2020. Dal suo canto Giorgio Diritti realizza un’opera in linea con i suoi bellissimi film precedenti, come sempre imperniati sull’umanità dei protagonisti. Un regista coerente, che presenta il film in questa maniera: “Nella sua immensa solitudine popolata da incubi, Ligabue percepiva energie invisibili e amplificava la realtà dei sensi dipingendo una giungla feroce, con tigri, leoni e gorilla. Nel farsi lui stesso animale, riconosceva energie superiori. Morte e vita pulsano nei suoi quadri. Il film è anche una riflessione sul valore della diversità. Toni, definito allora e spesso anche oggi come matto, è stato soprattutto un bambino rifiutato più volte, nato con problemi fisici che lo hanno reso reietto, che hanno causato la sua emarginazione e probabilmente anche i suoi disturbi psichici. Un uomo capace però di esprimere, nella specificità dell'arte, un talento incredibile, un punto di vista sulla vita, forte e originale. I suoi quadri esprimono uno sguardo particolare sulla vita, la raccontano come una continua lotta per non soccombere e contengono un forte desiderio di riscatto. Le sue sculture non sono solo realistiche ma esprimono intense pulsioni vitali. I suoi autoritratti sono la fotografia del suo stato d’animo e nel suo volto, con piccoli mutamenti di espressione a ogni opera, gli occhi rivolti all'osservatore interrogano, chiedono un ascolto, un riconoscimento, un segno di affetto. Come per ogni uomo nella vita, è capitato anche a Toni di sentirsi inadeguato, sbagliato, sconfitto ed il primo istinto anche per lui in quei momenti è stato il desiderio di nascondersi, di uscire dal mondo.” E difatti la prima eloquente e bellissima sequenza ci mostra, tra tanti flashbacks, Ligabue che si nasconde completamente nel suo cappotto, facendo capolino solo con un occhio per controllare.
Invece, da parte sua, Elio Germano spiega come ha inteso affrontare il complesso personaggio, il rapporto con il trucco importante che doveva sopportare e quindi quella specie di maschera che lo copriva, che gli ha dato modo “di vivere il personaggio dall’interno e non doverlo fare; non dover fare la faccia del matto o pensare a rappresentare una deformità.”
Il cinema biografico è sempre difficile, il tranello della retorica è sempre in agguato, il rischio di rendere un racconto di vita in agiografia è sempre alto quando si vuole esaltare un personaggio, ed invece ho trovato che l’autore sia rimasto umile nel suo ruolo di narratore e abbia esposto nel migliore dei modi quello che aveva in mente. Un bellissimo film molto ben riuscito per merito del regista e dello straordinario attore protagonista.
Riconoscimenti
2020 - Festival di Berlino
Orso d'argento per il miglior attore a Elio Germano
Candidatura per l'Orso d'oro a Giorgio Diritti
2021 - David di Donatello
Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista ad Elio Germano
Miglior autore della fotografia
Miglior scenografo
Miglior acconciatore
Miglior suono
Candidatura al miglior produttore
Candidatura alla migliore sceneggiatura originale
Candidatura al miglior musicista
Candidatura alla migliore canzone originale per ‘Invisibile’
Candidatura alla miglior costumista
Candidatura al miglior montatore
Candidatura al miglior truccatore
Candidatura ai migliori effetti visivi
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