Vox Lux (2018)
- michemar
- 17 feb
- Tempo di lettura: 9 min

Vox Lux
USA 2018 dramma 1h54’
Regia: Brady Corbet
Sceneggiatura: Brady Corbet
Fotografia: Lol Crawley
Montaggio: Matthew Hannam
Musiche: Scott Walker
Scenografia: Sam Lisenco
Costumi: Keri Langerman
Natalie Portman: Celeste Montgomery
Raffey Cassidy: Celeste giovane / Albertine
Jude Law: manager
Stacy Martin: Eleanor
Jennifer Ehle: Josie
Maria Dizzia: Stephanie Dwyer
Christopher Abbott: giornalista
Meg Gibson: sig.ra Montgomery
Matt Servitto: sig. Montgomery
Daniel London: padre Cliff
TRAMA: Celeste diventa una delle superstar del pop mondiale dopo essere sopravvissuta a un evento che le ha cambiato la vita. I suoi 18 anni di successi e travagli si intrecciano con alcuni degli eventi storici chiave che avvengono nel mondo.
VOTO 7

Nonostante le numerose partecipazioni come attore, ma noto e notato principalmente in film come Escobar, Sils Maria, Forza Maggiore, Melancholia, La fuga di Martha, Brady Corbet lo ricordiamo tutti per essere stato uno dei due freddi e spietati assassini nella versione americana di Funny Games di Michael Haneke. A fianco di Michael Pitt, sembrava quello meno appariscente ma perfetto collega di scorribande spinto da follia omicida alla pari dell’amico. Una presenza fisica poco appariscente che ad un certo punto della sua vita subisce una svolta che appare ancor più clamorosa perché nessuno avrebbe scommesso sulle sue qualità di autore e, non certamente in senso riduttivo come colui che scrive e dirige un film, bensì nel significato più qualitativo del termine. Dopo l’affermativo esordio con tanto di premi a Venezia (The Childhood of a Leader - L’infanzia di un capo) e prima della vera e definitiva affermazione completa e con i migliori allori e riconoscimenti con The Brutalist, in mezzo, quindi tra il 2015 del primo e il 2024 di quest’ultimo, ecco il secondo lavoro da sceneggiatore e regista, sempre in tandem con la sua compagna Mona Fastvold, con cui condivide ogni minima idea di regia e scrittura.
Nel primo come nel terzo, al nostro interessano personaggi dalla forte personalità inseriti nei tempi in cui vivono, in qualità di osservatori, portatori, ma anche vittime e artefici dei fenomeni sociali che attraversano il periodo che vivono. Lo spirito del tempo, giornalisticamente spesso chiamato zeitgeist, cioè l’insieme delle idee e degli atteggiamenti culturali, politici e sociali che caratterizzano un’epoca specifica, viene catturato da Corbet attraverso rappresentazioni e riflessioni sul XXI secolo che porta sullo schermo con l’atteggiamento di un fotografo inesorabile e spietato. Nel caso specifico lo fa con una diva moderna, attraverso la storia di Celeste, una cantante che nasce dal trauma di una tragedia scolastica che diventa una celebrità, e con il suo film esplora temi come il terrorismo, la fama e l’influenza dei media, i social, cioè gli elementi preponderanti dei nostri tempi. In questa maniera, la narrazione del film oscilla tra il dramma personale della protagonista e gli eventi storici che hanno segnato l’America contemporanea, offrendo una riflessione critica sulla società moderna. In questo modo, il film diventa una cartina di tornasole per decifrare il nostro tempo, un’epoca in cui il passato, il presente e il futuro si confondono in un gioco di specchi o di scatole cinesi. Sembrano, questa opera e le altre, racconti come tanti ed invece sono stravolgenti, offrendo una profonda comprensione delle dinamiche culturali e sociali del tempo, rendendoli opere rilevanti e significative.
L’incipit, che mostra un filmino in super8, che precede i titoli di testa, ci mostra una bambina senza particolari talenti. Ma la voce fuori campo (che nella versione originale è di Willem Dafoe) ci dice che la piccola sembra possedere quel non so che, tipico delle celebrità. “Celeste è nata in America nel 1986. Considerando le origini dei genitori, l’istruzione e la loro posizione socioeconomica, in qualche modo in linea con la parte perdente del reaganismo, il nome di origine latina appariva come una scelta particolarmente poetica e ha guidato Celeste verso una destinazione prestabilita, una strada su cui muovere i suoi passi. Molti anni prima che si inserisse nella cultura generale come uno di quegli aneddoti che si pensa di conoscere da sempre, sebbene non sia stata descritta come una ragazza speciale o spiccatamente talentuosa, possedeva già a quei tempi quel proverbiale quid che di tanto in tanto catturava l’attenzione degli insegnanti e dei suoi compagni. A dispetto di come in seguito i suoi detrattori giudicarono il suo ingegno, è stata una donna d’affari molto scaltra. All’inizio era gentile e molto aggraziata e quantomeno si scriveva i testi da sola. Nessuno poteva impedirle di farlo. All’epoca era una tredicenne in attesa di compiere i suoi 14 anni nel 2000. Era l’alba del nuovo millennio.” Sembra una introduzione elementare ed invece preannuncia il cataclisma.
Dopo i titoli di testa veniamo scaraventati con gelo e asciuttezza nel luogo dove si verifica la grave tragedia che segna l’adolescenza della ragazzina: siamo nel 2000 dopo le vacanze di Natale e il regista ci avverte che siamo nel Preludio, in quel momento, cioè, che condizionerà tutta la sua vita. Nell’aula di musica entra un giovane di nome Cullen Active entra e spara all’insegnante che sta salutando con il sorriso il rientro degli studenti. Celeste (Raffey Cassidy), atterrita come gli altri studenti, scappati in fondo alla stanza, rivolge con dolcezza la parola al ragazzo cercando di calmarlo e non far precipitare la situazione. Di tutta risposta lui continua la strage e ferisce quasi mortalmente la giovane, che invece resta solo gravemente ferita al collo e alla spina dorsale. Unica superstite, in ospedale, sempre accudita dalla affezionata sorella Ellie (Stacy Martin), assieme provano – a scopo psicoterapeutico – a scrivere una canzoncina in ricordo della tragedia. Ad un evento organizzato in memoria delle vittime, la canzoncina elementare diventa presto una hit, fino al punto che la ragazza viene contattata da un manager (Jude Law). Incredibilmente, Celeste, passo, dopo passo, si trasforma in stella. Non è più una semplice meteora. Col passare degli anni (ora è interpretata da Natalie Portman) assurge allo stato di diva. Intanto accade anche il terribile 11 Settembre e nel frattempo il rapporto con la sorella, sempre intimo e simbiotico, si incrina. Ci sarà tempo pure per l’arrivo di una figlia, Albertine (riecco Raffey Cassidy), ma la pop star non è un granché come madre, è una pessima madre, una star insopportabile, spesso alcolizzata, acida, nevrotica.
Nel 2017 si verifica un altro attentato terroristico su una spiaggia croata dove i guerrieri si nascondono dietro alcune maschere che si rifanno a quelle di un celebre video musicale di Celeste e inevitabilmente nasce la voce di un suo coinvolgimento, pur essendone estranea: ormai la commistione tra realtà, avvenimenti catastrofici e influenze della moda e dei VIP (quelli che oggi chiamiamo influencer) ha mescolato e confuso le idee sociologiche e tutto appare come un spaventoso frullatore che ingloba e mescola elementi di varia natura portando solo instabilità e insicurezza. Celeste, intanto, vive la sua vita frenetica guidata sia dal solito manager che dalla organizzatrice Josie (Jennifer Ehle), a stento trattenuta nelle frequenti e isteriche discussioni che animano il suo carattere inaffidabile.
La sua vita di è in qualche maniera quella dell’America: nevrotica, ferita più volte dalle mille sparatorie nelle scuole, dall’attentato alle Torri, dalla frenesia della ricerca del successo. Come diceva la voce fuori campo iniziale, non era una bimba ricca di talento, ma gli avvenimenti e la disperata ricerca di coprire il trauma avevano fatto sì che era nata una stella, fenomenologia nata per il teatro musicale (con Judy Garland) e più volte portato sullo schermo. Ma se lì il crollo mentale si verificava a causa di quello artistico, qui era la causa della nascita, la molla che lo star system aveva creato dal nulla. Celeste si trascina il trauma perennemente, ha sempre a livello inconscio un retroscena, uno scarto, la mancata rielaborazione, un dolore inappagato tramutato in isteria, il senso di sentirsi inadeguata, dipendente da tutto, dalla sorella che ora umilia di continuo, incapace d’amare ma nello stesso tempo arida e bisognosa d’amore, mai in grado di essere madre degna del termine, che fa soffrire la figlia a cui subito dopo chiede perdono. È lo stordimento da cultura pop come reazione al terrorismo di massa. E, chissà, forse anche il contrario: vai a capire perché, un giorno uguale agli altri, un giovane agguanta un fucile semiautomatico ed entra nei corridoi di una scuola, sparando con un’espressione inespressiva. Due fenomeni che forse si alimentano a vicenda. E cosa sia veramente il divismo e la cultura pop lo si vede in modo lampante nel lungo finale che diventa lo spettacolo topico della star.
Il tempo non guarisce tutte le ferite, le trasforma in cicatrici e queste, Celeste, le indossa in ogni luogo che frequenta e, perché no, anche sul palcoscenico pieno di effetti speciali e di ballerini che si muovono armoniosamente scatenati attorno a lei, mentre il teatro si agita, si dimena, canta all’unisono con la loro dea. Guaina di lattice aderente, luci stroboscopiche, ritmi ossessivi e, soprattutto, musiche elementari, per nulla artistiche ma refrain semplici facili da memorizzare, testi ancora più stupidi da cantare in coro. Tutto serve a distrarre e incantare i teenagers mentre fuori sparano, dividono e imperano i finanzieri, i produttori di armi si fortificano con i politici che eleggono. Se nel primo film Corbet illustrava la nascita e l’educazione del leader, in questa occasione e nel terzo passo (che pare destinato a raccogliere gli onori degli Oscar) ci esplica ancor meglio l’idea di usare il cinema come strumento per sintetizzare i grandi processi storici. Un certo richiamo alle architetture – che domineranno The Brutalist – lui ce lo offre chiaramente già qui con maestose fotografie di grattacieli inquadrati dal basso, colpi d’occhio velocissimi accompagnati da un veemente commento sonoro. Qui ci prepara al suo masterpiece seguente e ce lo fa capire senza indugio.
Più che romanzo di formazione, come il primo film, pare un racconto di antropofagia, per la maniera in cui la famelica protagonista inghiotte la sorella e la figlia, le uniche che mostrano doti di umanità, così diverse dalle altre due figure che circondano la star, i due manager, che vivono e agiscono solo in funzione di cosa deve fare l’artista, dove deve andare, quando, come, sostenendola non per affetto ma solo perché il business non si deve fermare. Forse per questa spietatezza lucida e inconscia il film ne diventa l’emblema e quindi assume gli stessi gradi di freddezza e asetticità. Fa impressione come Celeste e il sistema che le gira intorno formino un meccanismo che tritura le personalità e le condiziona: il pezzo di show del travolgente finale ha un ritmo infernale che stordisce e allibisce. Come una raffica di arma semiautomatica. Sembra un effetto ottico, un ologramma come cita il testo di uno dei suoi successi planetari. Dopo di che partono i titoli coda, ma all’incontrario, dal basso verso l’alto perché la logica non esiste più.
Che questo giovanotto si permetta già all’esordio un’opera non facile e di notevole personalità artistica e che qui si ripresenti con un’altra di non semplice fruizione, dimostra che idea abbia del cinema e di come e cosa abbia voglia di fare. Queste righe le scrivo all’uscita rimarchevole del suo terzo film, quel The Brutalist che tanto ha impressionato la critica e ha infiammato le discussioni in merito agli argomenti, tutt’altro che facili, che lo interessano. Ho molto piacere della sua affermazione, perché, come prima scritto, mi aveva impressionato e non capivo bene perché: ora comincio a spiegarmi meglio l’istinto che mi portava ad interessarmi. La forma per lui è non solo importante ma anche essenziale per le trame che predilige e i contenuti che porta avanti: è un cinema che ha qualcosa di importante da dire. Ora lo aspetta un futuro impegnativo e meglio mi esprimerò quando potrò godere del film che lo sta rendendo celebre.
La sceneggiatura è impressionante e se l’autore ufficialmente risulta l’unico estensore va detto che è solo una formalità, in quanto, da sempre, quello che produce è il lavoro in perfetta sintonia con la compagna Mona Fastvold, la quale ha sempre affermato che si tratta di un processo simbiotico: scrivono parecchio insieme, ma anche separatamente. A lui piace scrivere di notte, lei invece si alza presto e lavora meglio al mattino, così spesso si sveglia, apre il computer e riprende da dove l’altro ha lasciato. Altre volte lavorano simultaneamente, ma ciascuno su parti diverse della storia. Due cuori, una sceneggiatura. Un miracolo artistico. Da ciò ne scaturisce un film curato nei particolari, preciso come un cronometro, con tanta attenzione alle inquadrature e nella messa in scena.
La scelta di ingaggiare Natalie Portman si rivela molto azzeccata, perché quel tipino di donna quando si scatena diventa una belva d’attrice e in questo film dà una ulteriore prova di cosa è capace. Sembra di rivedere sotto altri colori il cigno che le era valso l’Oscar e da quel nero orrorifico passa al bluastro dell’esibizione inguainata: trucco pesante molto simile al balletto di Ciajkovskij ma con lunghe unghie finte striate di colori, pettinatura raccolta come le antiche sovrane di regni immaginari. Una tigre che abbandona dietro le quinte le debolezze nervose e di trasforma al suono delle migliaia di watt degli altoparlanti. L’attrice canta e balla sul palco, mentre il mondo va in frantumi e la sua anima pure. Ma grazie al carisma della israelo-americana la musica superpop maschera lo stridio verso la pesantezza e il terrore dei nostri giorni. Chissà, dove trova l’impeto questa attrice mai sufficientemente riconosciuta per quello che è, forse ha fatto pure lei, come la sua Celeste, il patto con il Diavolo? A proposito: che masso lanciato nello stagno, quella frase finale!
Vi risulta odiosa la Portman? Vuol dire che ha fatto centro!
Vox Lux, la voce della luce, della fama, dell’attenzione mediatica e dell’influenza che esercita sul pubblico, la musica pop come chiave di lettura per analizzare il presente e le dinamiche della celebrità, mettendo in luce le tensioni e le contraddizioni della cultura contemporanea.
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